In Divergent ci sono treni – più probabilmente, vetture della metro – che girano senza sosta per quel che resta di Chicago, privi di guidatore e con le porte aperte. Chi vuole ci salta sopra in corsa e altrettanto fa per scendere.
Mi ricordo il treno di A 30 secondi dalla fine, quello di Cassandra Crossing e quello di Assassinio sull’Orient Express. E Snowpiercer. E il treno dei vampiri in Priest. Poi ci sono i treni di Paul Delvaux, di de Chirico e di Lyonel Feininger. E c’è Naohisa Inoue col suo Iblard Jikan, anche se più propriamente qui dovremmo parlare di tram.
Cos’ha un treno, che altre cose non hanno? Il treno è ineluttabile. Non c’è strada, automobile o camion che reggano il confronto. Devo partire dai binari. Essi sono una sovrastruttura rispetto all’ambiente. Come una strada, denunciano un progetto razionale. Ma dove la strada è un insieme di possibilità, le rotaie offrono una soluzione unica. Ne segue immediatamente che – come in Divergent – un treno non ha bisogno di un guidatore. È contemporaneamente un artefatto ma anche un concetto autonomo, che può avere vita propria. Come la Roth, lo sapevano anche Kurosawa e Inoue. Diversamente da una strada e tutto ciò che la può percorrere, un binario evoca direttamente il treno, lo concretizza quantomeno in apparizione fantasmica. Se vedi una strada, puoi pensare a molte cose: se vedi una rotaia, a una sola. Il legame tra portatore e portato è molto più stretto, univoco. Ciò è favorito anche da una versione particolare del principio di esclusione di Pauli: su un pezzo di strada possono coesistere contemporaneamente molti oggetti diversi, su una rotaia, no. Il treno è quindi più simbolico.
Nessuno si è mai disteso su una strada. Cosa ci spingeva a distenderci sui binari, alla stazione di Trieste-Miramare?
Un’auto non può mai essere vuota (se non nei meno riusciti racconti di Stephen King). Un treno vuoto assume un senso diverso da uno frequentato, ma anche tale senso ha un preciso significato, che percepiamo come accettabile, realistico nel suo simbolismo.
Ricordo la stazione ferroviaria chiusa a Salt Lake City, un pomeriggio tardi. Rispetto al mio mese e mezzo sui Greyhound, rappresentava un altrove assoluto di valore e di modo, un’alternativa nascosta alla mia esperienza, ma altrettanto totale e con regole simili ma diverse da quelle che stavo sperimentando. Un universo parallelo che si svela improvvisamente. Una di queste regole riguarda il Tempo. Con la propria unicità, un treno divide il Tempo in due metà nette e non sovrapponibili: c’è un prima e un dopo. C’è un’attesa e un’attesa successiva, che può durare all’infinito. Lo descrive bene Alberto Cola in Isobel, dove alla differenziazione spaziale (di qua e di là delle rotaie) aggiunge quella temporale: la vita dell’attesa fruttuosa e quella del dopo, di illusioni che vanno spegnendosi. “Hai perso il treno” – si usa dire – e Cola racconta come ciò possa valere come una sentenza definitiva.
Mi domando cosa passi nella testa di quelli che costruiscono plastici che occupano tutta la stanza. Case, cavalcavia, boschetti, parcheggi, centrali elettriche e pastorelle con le pecore. Una cartolina scontata, che si anima solo perché c’è un treno (spesso due, nei casi “ricchi” tre) a rendere significativo il territorio. Ecco, è di questo che bisognerebbe parlare, se ne fossimo capaci: da una parte il significato in sé, dall’altra la modifica del territorio, come sapevano bene indiani, cow boy e bisonti ai tempi del Pacific Railroad Act (1862). Per essere più sottili, c’è un mondo di terra visto dal treno e uno di treni visto da terra. Trieste, come quasi ogni altra città, è attraversata da binari misteriosi che entrano nel cuore del tessuto urbano, rimanendo per lo più nascosti salvo l’attimo in cui l’inaspettata locomotiva li manifesta. Ma non c’è integrazione, solo sovrapposizione di universi. Come puoi parlare di integrazione, quando vedi La Macchina una volta sola nella vita entrare nella galleria sopra l’ippodromo, o a mezza costa sul carso quando sei all’università e guardi in alto, o addirittura in via San Marco e stai passando sotto quel ponte in ferro che non capivi a che servisse?
Per essere ancora più sottili, bisognerebbe chiedersi qual è l’esatto rapporto tra territorio, treno e binari, perché i vertici del triangolo sono questi, ognuno legato agli altri due. Se vuoi farne un quadrilatero potresti aggiungerci le stazioni, non come architettura (un po’ sì, anche) ma come luoghi di attesa. Di ciò che i binari fanno presagire. Spielberg conosceva il trucco, quando in Duel fa accendere i fari all’ autocisterna assassina dentro la galleria. Presagi. Ecco perché non tutte le stazioni si equivalgono. Genova, Napoli, Anzio e Tivoli non sono uguali a – che ne so – Roma Termini o Mestre o Treviso. Per contro, Paul Delvaux sa parlarci delle stazioni di campagna, magari nel bosco, ed è così che scopri che un Grand Central Terminal non vale Pieris (Go).
Insomma, è un insieme complesso: i binari strutturano il territorio e fanno presagire il treno, questo legge il territorio e lo popola. C’è un bel racconto di fs non mi ricordo di chi, in cui la periferia di una città, se vista dal treno, riporta una realtà parallela a quella effettiva. Le stazioni rappresentano l’attesa. Mancano i ponti ferroviari. Di nuovo, Cassandra Crossing ma anche Stand by me, e de Chirico ma soprattutto Feininger che sembra essere vissuto a Zoagli (non è vero).
Se dovessi scegliere una cosa sola sceglierei i binari.