Nel 1971, alla bouvette del torneo internazionale di scacchi di Venezia, a me e a Paolo, giovanissimi appassionati di scacchi, si avvicinarono due signori. Il primo, basso, claudicante e in generale piuttosto male in arnese, ci pose una domanda in una lingua incomprensibile, accennando con la testa alla scacchiera portatile che tenevamo in mano. L’altro, in un italiano alquanto approssimativo, disse: «Il mio amico chiede se può fare una partita con voi». Io, che ero e mi sentivo “il capo”, delegai volentieri a Paolo l’onere di accontentare quello che appariva come l’innocente desiderio di un individuo non troppo a posto con la testa, come l’avevamo entrambi giudicato con infallibile saggezza di undicenni. In capo a dieci mosse, il mio amico si trovò in una posizione completamente persa; dopo altre cinque mosse abbandonò, ridacchiando nervosamente. Lo strano vincitore ci strinse la mano, mormorando qualcosa nel suo linguaggio da marziano, e si allontanò sorridendo. Anche l’accompagnatore ci salutò, traducendoci i farfugli del suo amico: «Il Grande Maestro Milko Bobotsov [Bulgaria] vi ringrazia per la partita».