L’Altalena (cap.6 -2)

L

Tenendo conto delle mie dotazioni tecnologiche, feci qualche calcolo.

Identificando prudenzialmente (per eccesso) il deserto con un rettangolo 200×100 (chilometri), avrei dovuto fare 1190 chilometri per batterlo tutto con il binocolo, muovendomi da nord a sud come il carrello di una macchina da scrivere. Giunto all’estremità meridionale, sarei dovuto tornare al bordo settentrionale, e da qui a Turgaj. Mi serviva quindi carburante per circa 2000 chilometri. Fattibile.

Viaggiando per ovvie ragioni solo di giorno, mi sarei dovuto fermare come minimo 5 volte per ogni “scarrellata”, usando il binocolo a 360 gradi. Come minimo, perché in realtà per coprire meglio l’area dovevo fermarmi più spesso. Poiché sarei stato solo, tra una sosta e l’altra non avrei potuto esplorare nulla. Quindi decisi che mi sarei fermato 10 volte “a giro”, riducendo considerevolmente le zone fuori dalla portata del binocolo (gli spicchi del quadrato circoscritto al mio cerchio di osservazione).

I risultati dei calcoli mi indicavano un compito teoricamente non proibitivo, ma c’erano tre incognite. La prima riguardava la ricerca visuale: come potevo essere sicuro che a 10 chilometri di distanza avrei riconosciuto l’altalena? E se – appunto – era a terra o stava sotto la sabbia? La seconda coinvolgeva la morfologia della regione. La mappa descriveva il deserto come piatto, ma sarebbe bastata una collina alta – che so – venti metri per nascondermi qualsiasi oggetto. La terza e più seria incognita riguardava la visibilità effettiva. In caso di polvere alzata dal vento, non avrei visto a più di qualche centinaio di metri, altro che dieci chilometri.

In aggiunta a tutto ciò, c’era la faccenda delle famigerate pozze e acquitrini, che probabilmente mi avrebbero fatto deviare di non so quanto dal percorso tracciato sulla griglia. E se mi avessero persino impedito di proseguire? Ma di fronte alle incognite non potevo che organizzarmi con più benzina e più viveri dello stretto necessario.

Così, facendo altri calcoli, predisposi taniche di benzina per un’autonomia di circa tremila chilometri e scorte di viveri per almeno tre settimane. Se tutto filava liscio, anche percorrendo tutto il deserto a zig zag ma rispettando una media di circa 200 chilometri al giorno, non potevo impiegare più di una settimana per arrivare in fondo. E sarebbe stato veramente curioso se quello che cercavo si fosse trovato esattamente sul bordo meridionale del deserto, vicino al cartello “qui finisce il Barsuki”.

Giunse il giorno della partenza. Un poco entusiasta Ahmanov mi scortò con la sua carriola fatiscente fino all’imboccatura del deserto, larga una sessantina di chilometri. Poiché lui non aveva le gomme che avevo io, al momento dei saluti si guardò indietro con espressione affranta, pensando agli altri trecento chilometri del ritorno, tra balzi e sobbalzi. Ma le sue disgrazie mi commossero molto poco: al contrario di quasi tutti gli altri con cui avevo condiviso sinora l’avventura dell’altalena, Ahmanov era un tipo scettico/depresso, di cui nella mia situazione non sentivo troppo il bisogno. Forse – pensai – se ci sono molti come lui da queste parti, si capisce perché dell’altalena nessuno abbia più sentito parlare. Ma più che pensarlo, lo speravo.

Quando sparì col suo macinino, mi sentii sollevato. Subito però mi sentii anche solo, in un modo che non avevo mai sperimentato. Non era una solitudine di abbandono o di isolamento, e neppure di mancanza di aiuto di fronte all’ignoto. Ero solo di fronte al cancello d’ingresso del mio redde rationem. Qui, alle soglie del deserto, si smetteva di scherzare. La preparazione era finita, il lungo percorso di avvicinamento anche, e tutto quello che avrei fatto d’ora in poi era direttamente e immediatamente collegato al mio obiettivo originale. Ero qui per l’atto primario: cercare e possibilmente trovare. Il prossimo passo rilevante, che credevo l’ultimo possibile, era vedere l’altalena.

A essere sincero, sentivo naturale essere solo. Non mi sarebbe dispiaciuto avere vicino magari Larson o – ancora meglio – Dino. Ma nonostante quello che mi legava ai due, trovavo giusto così. C’era una buona dose di orgoglioso egoismo in ciò, ma avevo anche una giustificazione, vera e incontrovertibile: dei tre, sulle altalene di Piazzale Rosmini ci ero salito solo io.

Erano circa le quattro di pomeriggio di una metà giugno. Avevo davanti ancora molte ore di sole e, poiché la giornata era piuttosto limpida, decisi di cominciare subito le ricerche. Non pensavo di essere così fortunato da ottenere qualcosa il giorno stesso, ma mi sarei impratichito con la procedura di esplorazione definita a tavolino, e avrei testato la funzionalità del binocolo. Il GPS mi forniva un’individuazione molto precisa della mia posizione, e l’avevo collocato su di un supporto sul cruscotto. Per portarmi al punto zero, dovevo percorrere circa trenta chilometri verso est e dieci verso sud. Mi avviai.

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SU DI ME

SONO EDOARDO, NATO A TRIESTE NEL 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. CONTINUA...

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