Infinite Jest

I

Se dovessi consigliare un libro, uno solo, senza la minima incertezza indicherei Infinite Jest, di David Foster Wallace. DFW è considerato uno dei grandissimi della letteratura americana e mondiale della fine del ‘900, ma i motivi del mio consiglio non hanno niente a che fare con la sua fama.

In genere trovo la letteratura americana piuttosto ripetitiva, nei temi e nello stile, da prima della II guerra mondiale. C’è spesso il solito tizio di cui si raccontano le vicissitudini private e/o familiari, che prova a fare questo e poi quello e di cui il narratore ci tiene aggiornati nei passi salienti. Che sia Hemingway, Salinger, De Lillo, Pynchon, Auster o Bellow, lo schema cambia poco. Giorni fa parlavo di Hesse e del suo Giuoco: ebbene, nella letteratura non di settore (horror, fs, etc.) credo che un americano sarebbe incapace di simili astrazioni. Proprio non è nel loro DNA: ci devono sempre raccontare di persone e di fatti, azioni, cose che mutano nel contesto sociale. Sono molto – a mio avviso troppo – ancorati al concreto. Persino l’alternativo Bukowski e prima di lui l’ancor più alternativo Kerouac non fanno altro che parlare di viaggi, birre bevute, scopate più o meno riuscite, mogli incomprese e incomprensibili.

Beh, Wallace no. Al pari di Joyce e della Woolf, per prima cosa Wallace inventa una sua peculiare modalità espressiva, che nel suo caso non è una sfida né alla grammatica né alla sintassi, bensì un modo inedito di rendere i dialoghi, rispettando più fedelmente di ogni altro scrittore le pause e le interruzioni del pensiero. Tutto qui? No.

In Infinite Jest imbastisce una trama semplice ma articolata, in cui 3-4 scenari con rispettivi personaggi vivono di vita propria, intrecciandosi ogni tanto. E la trama di cosa parla? Ecco, il punto più sorprendete forse è questo: non lo saprei dire con esattezza. In un mondo solo leggermente distopico rispetto al nostro, con accenni fanta-politici e fanta-scientifici, c’è una videocassetta che fa impazzire chi la vede (quasi come in The Ring) e diventa l’oggetto di ricerca di vari gruppi di interesse, che la vogliono usare per fini politici e in buona sostanza terroristici. Questo serve a spiegare l’assoluta originalità del romanzo? Senz’altro no, nemmeno in parte.

Il fatto è che Wallace è un maestro nel descrivere… tutto quello che gli passa per la testa. Così per esempio racconta degli Alcolisti Anonimi – che a me non dovrebbe fregarmene niente perché tra l’altro sono astemio – e lo fa per 42 pagine di fila e non ti annoi nemmeno per una riga. Accade perché le sue descrizioni sono intelligenti, profonde, sensate e comprensibili, ti fanno pensare alla verità di quel che dicono, e in tutto questo non c’è nemmeno l’odore dell’autocompiacimento, della dimostrazione di essere bravo (come a esempio si percepisce invece in Houellebecq). Wallace è uno di noi, e con assoluta serenità ci mette a disposizione le sue osservazioni di profondo conoscitore di quello di cui parla, senza chiederci nulla in cambio. È un fratello, un cugino, un amico che non domanda di essere ammirato, non ci vuole stupire con effetti speciali, non richiede l’applauso.

Ogni tanto, già partendo da questa sua eccezionale capacità descrittiva, decide di “accelerare”. E allora ci sono pagine e mezze pagine in cui non fa altro che produrre elenchi di immagini, rapidissime, delle quali riconosciamo la realtà e la plausibilità perché fanno parte della nostra esistenza quotidiana, ma che neanche in mille anni sapremmo accostare l’una all’altra con tanta sicurezza, inventività, armonia. È come una danza ipnotizzante di cui conosciamo tutti i passi e tutte le note tanto da poter dire “sì, è vero, lo potevo pensare anch’io”. Solo che l’ha pensato lui. Le immagini, in sé, sono semplici, ma la musica che ne deriva dal suo modo di accostarle tocca corde profonde, risuona dentro, e questo perché Wallace è un profondissimo (e addolorato, purtroppo per lui) conoscitore dell’animo umano e delle sue reazioni emotive tipiche.

In tutto ciò, la trama ha qualche importanza? Non molta, a mio parere. È il collante che tiene tutto insieme, ma di per sé non è la sua originalità a fare di Infinite Jest un grandissimo libro e a continuare a produrre studi su studi sul suo autore, purtroppo morto suicida.

Ci sono romanzi che “ci parlano” e altri di cui ammiriamo semplicemente lo stile, la bravura dell’autore. Infinite Jest appartiene – beninteso per me – alla prima categoria, come alcuni lavori di Philip K. Dick (Ubik su tutti). Ma, che risulti in sintonia con noi o meno, fa parte di quel bagaglio letterario minimo che ognuno dovrebbe avere, in virtù di quella che ho già chiamato innovazione stilistica.

Il mio mondo personal-culturale si divide in un prima e un dopo rispetto alla lettura di Infinite Jest e – riguardo agli altri – distinguo tra chi l’ha letto e chi no.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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