L’Altalena (cap.6 -3)

L

Il fondo stradale non era malaccio (uno dei vantaggi di un deserto roccioso), e potei tenere tranquillamente una media di 50 km/ora. Così, prima delle cinque ero sul punto di partenza per la prima “scarrellata”. Adesso dovevo viaggiare verso ovest, in linea il più possibile retta. Dopo dieci chilometri, mi fermai come previsto e scesi dall’auto.

Purtroppo non avevo trovato un treppiede, e il binocolo vibrava un po’ troppo, anche perché era molto pesante e mi riusciva difficile tenerlo fermo. Allora usai l’espediente di poggiarlo sullo zaino e di sedermi a terra, mettendomi con la schiena contro la portiera: sì, andava meglio. In questa zona il deserto era veramente piatto, quindi le condizioni di osservazioni erano ideali: qualsiasi oggetto abbastanza grande si sarebbe stagliato contro il cielo. Come previsto, non trovai niente né a nord né a sud. Tutta l’operazione era durata un quarto d’ora. Ripartii per la successiva tappa di dieci chilometri.

Verso le otto di sera mi fermai definitivamente, perché la luce cominciava a definire con meno precisione gli oggetti. Avevo percorso più di metà della prima scarrellata verso ovest, poiché qui il Barsuki era molto meno largo degli ipotetici e prudenziali cento chilometri.

Come prima verifica, mi sentivo piuttosto soddisfatto del mio piano e della sua esecuzione. In ogni punto di osservazione avevo riportato sulla mappa le coordinate esatte, così da avere un quadro il più preciso possibile della mia “scannerizzazione” manuale. Preparai una cena calda, poi mi misi a dormire sui sedili. Come avevo previsto, di notte la temperatura si abbassava anche di 15 gradi, ma in giugno la forte escursione termica era del tutto tollerabile, per non dire gradevole.

L’indomani era di nuovo una bella giornata, e mi avviai verso le otto. Passai così due giorni di ricerca sistematica, svolta peraltro in condizioni climatiche e morfologiche (quindi di visibilità) che potevo considerare ideali. L’unico problema era che si trattava di una ricerca sinora infruttuosa, ma ormai mi stavo avvicinando a quella che ritenevo la “zona rossa”, vale a dire dove le possibilità di trovare quanto cercavo si dovevano elevare esponenzialmente.

L’attività operativa mi liberava dai pensieri e soprattutto dai dubbi. Ero più che sicuro che la mia tecnica avrebbe dato i suoi frutti: lì intorno, da qualche parte, c’era l’altalena, e un binocolo russo l’avrebbe individuata.

Al mattino del terzo giorno il mio entusiasmo si affievolì di molto: si stava levando un vento che non prometteva niente di buono. Partii subito, per salvare quanto più possibile della giornata, ma in capo a un’ora ero nel bel mezzo di una bufera che avrebbe potuto esibire un bel certificato di qualità.

Mi trovavo al centro del deserto, in tutti i sensi. La Lada veniva sballottata dalle raffiche, e spesso si sentiva il tonfo metallico di un sasso che colpiva la carrozzeria. Ero letteralmente prigioniero dell’autoveicolo, senza nessuna possibilità di muovermi, mentre la sabbia limitava la visibilità a meno di cento metri.

Cercai di prenderla con filosofia, standomene tranquillo ad aspettare che passasse, mentre rivedevo in flashback sprazzi della storia che mi aveva portato fin lì. Ero in una situazione strana, insolita, ma non ancora pericolosa. Riuscivo facilmente a estraniarmi dalla mia immagine: mi vedevo solo in una macchina nel centro di un deserto dell’Asia centrale, isolato come probabilmente non ero mai stato in vita mia; un po’ scemo, un po’ eroico, molto impaziente.

Per passare il tempo, scorsi per l’ennesima volta gli articoli di Akundjanov, i cui paragrafi ormai mi suonavano nelle orecchie come dei mantra tibetani o dei versetti della bibbia, coprendo nella mia mente il sibilo del vento. Rifeci anche i calcoli sul tempo della missione esplorativa, cercando di ipotizzare quanto l’imprevisto potesse ritardare la tabella di marcia. Comunque, nel complesso ero in una botte di ferro (a pensarci, era una definizione molto appropriata per il mio mezzo di locomozione).

A ora di pranzo mangiai roba fredda, quindi mi concessi un sonnellino.

Quando mi risvegliai erano le quattro del pomeriggio. Il vento non sembrava affatto diminuito, anzi, ma forse era solo un effetto psicologico. Pensai che decisamente per quel giorno non avrei combinato niente. Ma mi sbagliavo, e di grosso.

Infatti verso le sei il vento accelerò inequivocabilmente: più che in un’auto adesso mi sembrava di essere su di una nave in un mare forza sei. Cominciai a stare all’erta, perché la situazione iniziava a piacermi poco.

Un sasso colpì il finestrino posteriore del mio stesso lato, e fece un botto per nulla rassicurante; la bufera aveva rotto gli indugi, e aveva deciso di candidarsi per il titolo di “tempesta dell’anno”. Quando mi sembrò di sentire le ruote del lato guida sollevarsi, accesi il motore e girai il veicolo, ponendolo controvento: ora il beccheggio era diminuito di molto, ma vedevo direttamente in faccia le raffiche con tutto quello che si portavano dietro, mentre la visibilità non superava i trenta metri.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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