Non voglio soffermarmi su una legge naturale che la vita mi ha insegnato già due volte: un gruppo di giovani maschi che trascorre alcuni mesi o anni in stretto e continuo contatto in un’esperienza nuova e forte sviluppa un legame indissolubile. Commilitoni, compagni di classe, carcerati, operai… non importa. Si forma in ogni caso uno spirito comune che resta per sempre. Non si chiama amicizia: è un’altra cosa, che forse non ha nome ma non vale di meno.
Questa volta l’ho visto succedere sotto i miei occhi, anche se non ero uno di loro. E non mi ha fatto meno piacere assistervi, anche se non ero uno di loro. Ma mi è stato fatto il favore, l’onore, di poter essere presente. Ho cercato di trasmettere il rispetto che provavo per quanto stava accadendo, con tutto il contorno di sfottò, battute, inevitabili facezie che accompagnano come un immutabile rituale il momento del riconoscimento. Perché in queste faccende a contare è proprio il potersi guardare in faccia e dirsi “ti vedo” per quello che eri e quello che sei ora, e ti accetto nel tuo passato e nel tuo presente.
Io non ero uno di loro, ma quella lontana volta c’ero anch’io, ad accompagnarli in un’esperienza che li ha resi diversi da come sarebbero stati oggi se non l’avessero fatta.
Le domande che ieri sera mi sono fatto erano differenti dalle loro, ammesso che avessero bisogno di chiedersi qualcosa. Riflettevo: “Ho fatto, allora, quello che avrei dovuto fare?”. Sono riuscito a essere un buon comandante, senza che mi ricordino come un aspetto negativo della loro esperienza? Insomma: sono riuscito almeno un po’ a lasciare che crescessero, mentre stavo crescendo anch’io?
Non mi rispondo da solo, perché la risposta ce l’ha ognuno di loro, e vale solo per sé.
Ma una sensazione l’ho avuta, e oggi me la sono portata da Vicenza a Roma. Ed è questa: sì, siamo stati il glorioso IV plotone 85-86 del Sito Pluto, e questo non ce lo toglierà nessuno, mai.
Grazie ragazzi, i miei ragazzi.
Carissimo Tenente grazie per le queste belle parole. A prestissimo