Cap. 6 – Deserto
Il Barsuki è un deserto, posto tra due catene di montagne, che percorre il Kazakstan occidentale da nord a sud. Non è molto noto, perché non è né sufficientemente grande né abbastanza particolare da meritare più che una menzione sulle mappe. A settentrione inizia a circa trecento chilometri a sud di Turgaj (Grande Barsuki), prosegue più o meno per duecento chilometri e finisce (Piccolo Barsuki) dove inizia il bacino naturale del lago d’Aral, nel Bassopiano Turanico. Nonostante sia un deserto, oggi la sua parte meridionale è cosparsa di pozze e paludi, create dall’affioramento delle falde acquifere del lago.
Le falde emergono perché i depositi salini dei fertilizzanti usati per cinquant’anni dall’Unione Sovietica per coltivare il cotone lungo il Syrdarja e l’Amudarja, una volta scaricati nel lago, agiscono come una pressa sulle falde stesse. La qualità dell’acqua delle pozze è tale da sconsigliare vivamente di immergerci qualsiasi cosa, in primis la propria pelle.
Le mutate condizioni climatiche dovute all’evaporazione continua del lago hanno trasformato l’intera area in una zona battuta da venti improvvisi, anch’essi intrisi di un vasto assortimento di polveri chimiche.
Il Barsuki, essendo puntato come una canna di fucile dal lago al Turgaj, è un ottimo scambiatore d’aria tra le due zone. In altre parole, quando nel resto della regione il vento è forte e teso, in quel deserto assume le caratteristiche di una bufera. Le frequenti tempeste di sabbia, sassi e polveri cancerogene che lo spazzano irregolarmente non ne fanno una meta turistica di particolare celebrità. In sintesi, lì non ci abita e non ci va nessuno.
Ma.
Ma il mio angelo dagli occhi neri aveva detto proprio “altalena…Barsuki”, e non altro. Per me non sussisteva più il minimo dubbio né se esistesse né su dove fosse l’altalena. L’altalena c’era. Nel deserto del Barsuki.
Molto vicino ai pastori, un po’ più lontano dalla pensione di Akundjanov. Ma che ci voleva, per uno stimato accademico di Akademgorodok, a prendere la Transiberiana da Irkutzk a Petropavlovsk, e poi scendere con altri treni fino al Mugodzary? Il Barsuki è attraversato da una ferrovia: ad est c’è la stazione di Celkar… Ecco il percorso fatto da Akundjanov, nella tarda primavera del ’76.
Nessuna disperazione, nessun tuffo nelle acque blu del Bajkal, nessun viaggio premio pagato dal KGB. Era andato a raggiungere i suoi pastori, per un ultimo esperimento.
Come ne ero certo? Come facevo a saperlo? Perché – parola più, parola meno – me l’aveva detto un angelo cui mancava la mamma.
Dissi ad Ahmanov l’unica cosa che voleva sentirsi dire: “torniamo immediatamente a Turgaj”, dove avevo lasciato il grosso dell’equipaggiamento consigliato da Dino.
Vista l’espressione soddisfatta di Ahmanov, decisi di non confidargli subito che l’avevo già mentalmente prenotato per un altro servizio taxi.
Quindi ora si trattava di progettare qualcosa di più serio di un giretto lungo la Via della Seta, accodato ad una carovana tecnologica capitanata dal vecchio Dino. Stavolta mi sarei trovato da solo in una zona lunga duecento chilometri e larga in alcuni punti fino a cento, spazzata da bufere poco salubri, alla ricerca di una cosa che non sapevo esattamente come fosse fatta, e che poteva essere ovunque, magari distrutta, rovinata a terra e forse completamente sepolta dalla sabbia.
Poiché non avevo la vocazione del pellegrino di Compostela, decisi di comprarmi un mezzo adeguato alla bisogna, tipo la versione locale di una jeep.
In dieci giorni avevo una Lada 4×4 in discrete condizioni, e soprattutto revisionata sotto mia diretta e costante vigilanza (non che ne sapessi niente di motori, ma il meccanico di Turgaj non sapeva che io non sapevo).
Da Wolverhampton mi ero già fatto faxare una mappa del deserto con le indicazioni GPS, su cui avevo tracciato una griglia di esplorazione. C’erano dai 10.000 ai 20.000 chilometri quadrati da setacciare. Scoperto questo, avevo smosso tutte le conoscenze ortodosse e meno ortodosse di Ahmanov per procurarmi un potente binocolo militare russo (che pagai un prezzo esorbitante), che mi garantiva – in buone condizioni di visibilità – di distinguere per quello che erano oggetti sufficientemente grandi (come ad esempio un obice da artiglieria pesante, oppure una superaltalena) ad una distanza di circa 10 chilometri.