I cannoni di Lavarone

I

Hai 11-12-13 anni. C’è un solo momento in tutto l’anno in cui puoi provare a dimostrare qualcosa a chi conosci. Non sono le vacanze estive, quando un mondo si è appena sfaldato, vaporizzato, e ti puoi al massimo preparare per il momento in cui si riconsoliderà (ma di solito hai altro cui pensare). È invece il periodo in cui ciò che sanno che sei, quel che sei e quel che speri di essere si mischiano e lasciano aperta la porta all’Opportunità. Io avevo due vite, totalmente separate. Una d’estate, che si chiamava Simona, e l’altra. Per qualche misteriosa e benedetta ragione – ma sospetto che la mia volontà c’entrasse qualcosa – la vita estiva era esattamente, anzi meglio, di quanto avessi mai potuto sperare: avevo Simona, senza dubbi da parte di nessuno (i miei, i suoi, i testimoni). Ma tre mesi bastano a superare il ponte degli altri nove, non a riempire lo spazio di significato. Per questo occorre l’Opportunità.

Lavarone è un curioso posto del Trentino: non ha un centro, ma è solo un nome per cinque agglomerati di case sparse. Una comunità montana, si dice oggi. La parte di Lavarone, distantissima dalle altre quattro, che interessa questa storia si componeva di un albergo e basta, l’hotel Cimone, e delle vicinissime piste da sci. Le piste erano quattro, la seggiovia una sola. Non un gran complesso nell’insieme, ma eravamo a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70 e il Dolomiti-sky-pass che ti arruola per 500 km di discese era al di là da venire. Poi, non ha nessunissima importanza quante e quanto lunghe fossero le piste: l’unica cosa che contasse è se ti davano una sensazione di totale libertà e gioia. Sì, completamente, fine della discussione.

A Venezia, tutti sciavano. A non farlo erano forse in tre e non ho mai conosciuto nessuno di loro. A 11-12-13 anni lo sci è una cosa che prendi molto sul serio, come può esserlo a sette il saper correre veloce (Giovanni Prevedello, il Flash/Barry Allen della Manzoni: e chi se lo dimentica più?). Io almeno la prendevo sul serio, ma sapevo di essere in nutrita compagnia. Verso autunno, quando le giornate si fanno corte, volavano frasi sui più abili sciatori della nostra età. Poiché il nostro mondo era limitato alla scuola, questi coincidevano con i più abili sciatori della Morosini, gli altri non esistendo o essendo condannati all’oblio dai nostri orizzonti percettivi. C’erano due nomi importanti, per cui ricordateveli: Luca Pianon e Carlo Glatz. In un mondo – il mio – di informazione incompleta, i due vivevano un’ontologia completamente diversa l’uno dall’altro. Carlo Glatz esisteva, come corpo e come spirito: non lo vedevo mai, ma ero certo della sua presenza tangibile. In terza media, poi, da bocciato finì in classe con mio fratello, il che lo rese non solo provatamente esistente, bensì anche fisicamente identificabile. Sarebbe bastato un nulla per entrare nella sua classe, di fianco alla mia, e vederlo in carne e ossa. In un certo senso, la fattibilità teorica di quest’esperienza lo aveva fatto scendere di qualche gradino nel mio empireo: se uno parla con mio fratello, potrebbe farlo anche con me, e quindi è della medesima sostanza di noi umani. Concludiamo per ora aggiungendo che Glatz era decisamente un bel ragazzo, stile “impunito”, il che è caratteristica quasi indispensabile per chi voglia sentire il proprio nome associato al gotha dello sci. [ma tenete a mente quel “quasi”, perché è importante]. Tutt’altra faccenda riguardava Luca Pianon, dell’esistenza del quale non avevo mai avuto prove certe tranne – successivamente – una, quella di Rivelazione, estremamente traumatizzante (per me, beninteso: per lui non credo). La Morosini era suddivisa in due filiali, la sede principale (San Stae) e la succursale (San Maurizio), distantissime l’una dall’altra. Non ho mai avuto elementi per verificare se la percezione di noi (San Stae) che avevano a San Maurizio fosse in qualche misura simmetrica alla nostra (mia), ma certo è che si trattava di due mondi diversissimi, tanto da farmi seriamente dubitare che coesistessero sulle medesime coordinate spazio-temporali. (Anche a questo proposito potei in seguito modificare il mio bagaglio d’esperienza – grazie ad Andrea Valmarana – ma ciò accadde solo in terza). Pianon era il campione invisibile di un mondo sulla cui esistenza mi sembrava lecito sospendere il giudizio, per cui nelle mie fantasie non mi risultava difficile immaginarlo in paritetico colloquio con Thoeni, Gross e il resto della Valanga Azzurra. In realtà ero pronto a credere che Pianon potesse anche sciare meglio di Thoeni e Gross, perché questi li vedevo in tv e spesso non arrivavano primi, mentre l’epica su Pianon non ammetteva defaillance di sorta.

E la mia classe – sì dico proprio la D -, com’era messa rispetto al fondamentale tema dello sci? Non stavamo male: c’erano Paolo Utimpergher e Maurizio “Pussy” Stefani, entrambi accreditati di una solida formazione teorico-pratica: erano entrambi noti per le loro doti sciatorie, forse non tali da farli gareggiare alla pari con Pianon e Glatz (e chi mai potrebbe?) ma sufficienti per mettere in piedi una nostra compagine degna di rispetto. Entrambi piacenti (vedi sopra circa le necessità estetiche dello sciatore di successo), più fisicamente solido Maurizio – ma anche più sregolato, un po’ come Glatz – più tecnico ma delicatino Paolo. La nonchlance perpetua di Pussy poteva essere un vantaggio ma anche una debolezza: ero sicuro che, fosse arrivato primo o ultimo, non gliene sarebbe fregato niente, e questo non è l’atteggiamento giusto nei confronti dei compagni che contano su di te. Utimpergher invece ci teneva, ci teneva moltissimo a fare bella figura, ma a un fisico non proprio possente si accompagnava una tenuta nervosa non perfettamente ermetica: era facile allo scoraggiamento, peccato mortale in faccende sportive.

Avevo cominciato tardi a sciare, a nove anni. Molti vantavano esperienze decennali a 11, 12 anni. Strano che i veneziani sciino tutti, ma forse no: hanno un bel po’ di montagne, delle più belle, a nord di Belluno. Fatto si è che ero l’ultimo arrivato e cercavo di mettermi in pari durante le vacanze di Natale in Val Comelico. SuperMaestro Aristide Pocchiesa ce la metteva tutta, ma l’Arte sboccia lentamente, si sa. Così Lavarone era, tra le tante cose che era, la controprova di quel che stavo imparando a Padola. Perché mai una scuola di Venezia per la settimana bianca deve scegliere un albergo in Trentino? Mistero della fede, e forse anche delle tasche di qualcuno – ma al tempo simili, maliziose riflessioni ci erano estranee. Però, come ho già detto, nulla di deficitario si poteva imputare alle piste di Lavarone: gialla, verde, blu e rossa, una meglio dell’altra. Quella rossa, dimentichiamocela: era quasi sempre chiusa o considerata inadatta a noi. Le altre tre avevano in comune il primo tratto, poi la gialla continuava diritta fino a un muro, con sotto i campi. Non ci piaceva molto, perché l’ultimo tratto dovevi pattinare. La blu si inoltrava nel bosco (vero, Barbara Bertin?), per poi finire sugli stessi campi. La verde faceva un’ampia curva, anzi molte ampie curve ed era la più bella, seguendo a tratti la seggiovia, che ti accompagnava col suo …zzzzzz… da sopra la tua testa. Ma, soprattutto, la verde era la pista della gara. E non da ultimo la più facile per i maestri nel controllare i festanti studenti. In tutto e per tutto, su quelle piste sono sceso per 18 giorni in vita mia, l’ultima volta 44 anni fa: perché mi ricordo ogni albero? (la Bertin se li ricorda anche meglio). Semplice: perché era tutto perfetto.

Si partiva una mattina da Venezia, piazzale Roma. Più o meno a ora di pranzo – mi pare di ricordare – si arrivava al Cimone, dove i nostri pullman sarebbero serviti a riportare in laguna quelli del turno precedente. Lì con te, oltre alla tua classe con cui avevi fatto il viaggio, c’erano altre classi, ben distribuite tra prime seconde e terze, in modo da non farti venire nostalgia di niente. Incredibilmente, c’erano anche quelli di san Maurizio (allora esistono!). Ora qualcuno si chiederà se per caso vi abbia mai incontrato Luca Pianon; calma, non c’è fretta. Parliamo invece con l’inevitabile frase fatta dell’enorme eccitazione che ci pervadeva. Il primo anno era una novità, ma gli altri due sapevi già cosa aspettarti ed era dall’anno prima che non vedevi l’ora. Sciatori provetti e pippe leggendarie assaporavano in egual misura l’hic et nunc perché – continuiamo pure col latino – si era al redde rationem di un anno di preparativi. Sciistici? Anche, ma non solo, forse non soprattutto. Quando ripenso a Lavarone, non posso non ammirare la davvero splendida, perché non ostentata, organizzazione che si era data la nostra scuola in materia di settimana bianca. Detto in francese, non ricordo un solo episodio in cui i professori accompagnatori ci abbiano cagato il cazzo. Non ricordo un contrattempo, un ritardo, l’imposizione di una rinuncia. La sera, dopo cena, nel salone c’era pronto qualcosa per intrattenerci. Intendiamoci, ci saremmo benissimo saputi intrattenere da soli, ma quanto era stato preparato non interferiva mai coi nostri piani di adolescenti. Così finalmente vedevamo le Ragazze: potevamo perfino parlarci e – udite udite! – financo ballarci assieme. Ricordo diversi intrecci nati in quelle tre settimane bianche, ma poiché i veneziani si conoscono tutti (sono tutti imparentati tra loro, essendo in poco più di 100 in tutta la città) non faccio nomi e cognomi, altrimenti scoprireste che la stessa ragazza che stava con mio fratello due settimane dopo stava con Andrea. Si chiamava Marta, e più non dimandare. Lavarone era almeno 4 cose, intrecciate tra loro. Lo sci e il tuo posizionamento sociale (valido tutto l’anno) derivante dalla tua abilità. I tuoi rapporti con i compagni, che potevano modificarsi significativamente – con perdita o guadagno di prestigio – e che anch’essi ti saresti riportato in eredità a Venezia. I tuoi rapporti con i professori, necessariamente migliori (i prof) che in classe. Le Ragazze.  Tre di questi temi erano legati dai vincoli della Fama e della Gloria, o dell’Oblio e del Disonore. Una qualunque figura di merda avrebbe, al tuo ritorno, fornito argomento per ghiotte risate protratte nelle stagioni e da un anno al successivo, unico momento possibile di riscatto. Così ogni prodigio di valore – sulla neve o sulla pista da ballo – ti avrebbe ammantato dell’aureola del Giusto, sì da renderti riconoscibile in mezzo alla folla. No, su quel che accadeva durante quella settimana non c’era da scherzare.

Sinora ho tracciato un quadro valido in ciascuna delle tre annualità, ma non si può tacere la componente dinamica, evolutiva. Come in tutte le scuole, gli studenti crescono, fuori e dentro, e ciò senza sorpresa accadeva anche a noi. Se la scenografia non mutava, la sceneggiatura sì: una cosa è essere bocia della prima, un’altra navigati corsari della terza. Inutile mi ci soffermi. Ma c’erano altre variabili, esogene, che cambiavano. Sul piano personale, il primo e il secondo anno avevo gli sci in affitto. Il terzo mi presentai con due legni nuovi, della Spalding Persenico e con attacchi di conseguenza. Fisicamente, se l’anno prima saltavo in alto un metro e dieci, d’un balzo (è il caso di dirlo) ero passato a un metro e trentacinque. Come me, altri: la pubertà non fa prigionieri. Tra i mutamenti di contesto voglio sottacere che il primo anno ero in camera con Marco Zennaro, che si ruppe una gamba, e il secondo con Francesco Mora, che si ruppe una gamba. Così, per non sapere né leggere né scrivere, il terzo anno mi misero in una stanza a quattro, forse con la segreta speranza che avrei fatto strage di compagni; invece, nessuno si fece nulla.

Invece devo e voglio parlare delle Forche Caudine della prima mattina, quando i neo conosciuti Maestri e Dei Immortali ti schieravano su una collinetta davanti all’albergo e in non meno di due ore ti esaminavano per la prima volta. Qui, inutile a dirsi, si tracciava ineluttabilmente il Destino: la verifica di fisico, attrezzatura e tecnica si svolgeva senza appello e avevi dieci secondi e due-tre curve per dar prova di te e del tuo senso su questa Terra. In che gruppo di merito ti avevano messo? Contrariamente all’opinione di Giulio Cesare, era palese fosse meglio trovarsi ultimo dei primi anziché primo degli ultimi. Il primo anno fui messo in gruppo C, mentre i Veri stavano in D. Tragedia prevista: non ero ancora pronto. Il secondo anno avvenne il disastro: meritai con immenso orgoglio il gruppo D, per capire un minuto dopo che nel frattempo si erano inventati anche quello E. A oggi ancora non so come feci a riprendermi psicologicamente. Il terzo e ultimo anno, finalmente la vetta di merito: gruppo E (e nessun gruppo F a farmi marameo). Avevo lavorato duro, a Padola con Aristide, passando l’esame FSI delle due stellette d’oro. Ora dipendeva tutto da me. Nel gruppo E del mio turno c’era Glatz, il James Hunt dello sci alpino.

Mentre si approssimava il giorno della gara, l’ultimo, passai una settimana incantevole. Nuove conoscenze, nuove amicizie. Potevo parlare liberamente con Glatz, che mi spiegava i problemi di tenuta dei suoi puntali Marker. Mi guardavo in giro, e scoprii che il mio nuovo compagno di banco, quell’Andrea Valmarana che mi aveva inoppugnabilmente mostrato l’effettiva esistenza di sezioni popolate di persone reali a San Maurizio (da dove proveniva), era anch’egli – prevedibilmente, direte voi – uno sciatore della madonna. Le chance della mia classe aumentavano improvvisamente con il nuovo acquisto. Tra le sezioni presenti nel mio turno di quell’anno, spiccava la III C (San Maurizio), che era la classe con il più alto tasso di belle figliole che si potesse aver la fortuna di incontrare, compresa la Meraviglia Assoluta che di nome faceva Paola Nicolis di Robilant (gruppo di merito E, ça va sans dire).

E venne il giorno della gara (slalom gigante). Feci la gara. I risultati venivano comunicati la sera, nel corso dell’ultima grande festa della settimana bianca, partendo dall’ultimo classificato dall’ultimo gruppo di merito (A) (la maglia nera assoluta, insomma). Noi del gruppo E, rudi reduci di mille battaglie, snobbavamo tutto quanto non ci riguardava, dissimulando una tensione più che evidente attraverso sorrisetti nervosi di circostanza. Finalmente si arrivò al nostro gruppo. Era in gioco il nostro passato, il presente e soprattutto il futuro: da quella classifica gli aruspici avrebbero predetto il nostro avvenire, tanto più potenzialmente drammatico in quanto non ci sarebbe stata mai più una prossima volta. I trenta e più nomi venivano scanditi da uno dei maestri di sci, seguiti dal tempo di ciascuno. A ogni nuova chiamata, temevi di sentir pronunciare il tuo.

Glatz finì malissimo, perché a metà percorso era caduto.Utimpergher, una delle nostre speranze, finì 13mo, col che scoppiò in un pianto dirotto, prontamente consolato da un paio delle sue ammiratrici. Maurizio “Pussy” Stefani, colui sul quale avrei puntato i miei soldi se si fosse potuto scommettere, era ottavo. E al settimo posto – ebbene sì – c’ero io. Mai, nella Storia del Mondo, un settimo posto procurò ad alcuno una gioia simile alla mia, che non solo ero tra i primi dieci, ma mi ero lasciato dietro Utimpergher e Stefani. Quarto fu Andrea Valmarana, acclamato dalla mia classe più di Nelson dopo Trafalgar. Onestamente, chi arrivò terzo o secondo non me lo ricordo affatto. Mi ricordo invece il boato dei miei compagni quando fu proclamato il vincitore, Colui che attribuiva la Gloria, in quel momento e da quel momento per sempre, a sé e alla III D. Ivan Brussato, l’uomo coi Morotto Bruno Alberti Fuego-Ghiaccio, il cui stile non era impeccabile (e molto, molto meno elegante di quello di Glatz), ma che evidentemente tenìa los cojones quadrados. Tranquillo, silenzioso e determinato, li aveva messi in fila tutti. Tranne Luca Pianon, che quell’anno non c’era. E chi non c’è – si sa – ha sempre torto.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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