Closing Time
In questo 2016 di partenze importanti, trovo quasi giusto anche se profondamente sbagliato che ci abbia salutato anche Leonard Cohen.
Dicono fosse quello di Suzanne e Halleluja. Può darsi. Effettivamente avevo comprato la prima in Songs of Leonard Cohen, ma mi appallava alquanto (meglio, molto meglio So Long, Marianne). Avevo 16 anni, e il disconegoziante mi aveva chiesto “Ma perché ti compri una roba così pallosa?”. Aveva ragione, sul momento. Così tenevo l’lp intellettualo tra i tanti ma tra i meno sentiti, e altri non ne comprai. Cohen uscì alla distanza. Aveva scritto un libro – mai letto né avuto in mano – dal bel titolo Beautiful Losers. Aveva scritto anche Il gioco preferito, e quella sì che era ottima letteratura ebraico-canadese, fatta di carnalità libera e amorale, di malinconica gioia di essere al mondo (non “di vivere”), di tristezza ben calibrata e tanto lontana dal suicidio quanto l’Inter dallo scudetto. Poi venne qualcosa che si chiamava I’m Your Man e capii che quel primo e oramai lontano disco era stato solo il segnaposto di un amore di là da venire, ora arrivato. Il Cohen maturo era infinitamente migliore del giovanotto con la chitarra: il suo amore per la Donna, per tutte le donne, suonava scanzonato ma non cinico, serio e sorridente, sicuro ma mai presuntuoso. The man with a golden voice (Tower of Song) aveva molto da dire, e lo diceva. Non ho mai sentito niente di altrettanto meravigliosamente vendicativo e allo stesso tempo leggero di Everybody Knows, così come pochissime canzoni hanno il fascino misterioso e la potenza di First We Take Manhattan (Then We Take Berlin). Solo uno poteva farne una cover che non aizzasse al lancio infinito di pomodori: Joe Cocker.
Saluto Leonard Cohen ringraziandolo sentitamente per la musica che ci ha regalato, per quell’aria da zio impunito e auto-ironico che lo rendeva bello dopo i 70 anni (lui che bello non era), e per i suoi video b&w di grande suggestione.
It’s Closing Time, Leonard.