La Val Camonica è buia e i locali dicono (beh, almeno una) che vi si parli un dialetto orchesco, tant’è che non serve la simultanea quando i sindaci locali conferiscono con gli emissari di Mordor.
Del resto dal Paleolitico dopo l’ultima glaciazione qui vivevano i Camuni, quelli delle 300.000 iscrizioni rupestri sulle rocce e nelle grotte.
Ma nella zona c’è persino di meglio: il “piccolo Vajont”, la diga sul torrente Gleno che crollò il 1° dicembre 1923, facendo circa 350 morti. Chi vuole i particolari tecnici legga Wikipedia, ma come al solito la causa fu l’imperizia progettistica: al primo riempimento del bacino, i calcoli sull’impermeabilizzazione a gravità si mostrarono sbagliati, l’acqua cominciò a infiltrarsi da sotto la diga, e fine.
Trovo notevolissima l’architettura del manufatto, così diversa ed esteticamente più ricca che nel caso SADE. L’insieme dei resti sembra un partenone, un tempio, un acquedotto, assolutamente incongruo a 1500 metri d’altitudine e abbandonato in mezzo ai prati di mezza costa. Da dovunque la guardi fa impressione perché è palese che lì non c’entra un cazzo.
Ma forse quello cui somiglia di più è una strana ridotta aliena, appendice della Fortezza Bastiani, lasciata anche da Drogo. C’è un’evidente differenza ontologica tra il calcestruzzo della val Cellina e questi archi camuni. Il primo è essenziale, freddo, senza appigli ma – soprattutto – vincitore, testimone di una strage partecipata senza cedimenti. I secondi sono rovine, resa, debolezza dietro un’apparenza maestosa. I due contesti rendono tutta la distanza tra un trionfo e un fallimento. Perché tu sai benissimo che il monumento friulano non crollerà mai, a costo di restare l’unico sopravvissuto nei dintorni, mentre in Val Camonica c’è il simbolo di una sconfitta che non potrà chiedere rivincite.