Riflessioni di un guitto

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Ho cominciato a fare teatro essenzialmente per due motivi. Da un lato per solleticare un solido impianto narcisistico, dall’altro per abbattere quello stesso impianto: se vuoi smettere di mangiare dolci nulla è più indicato che provarci nel negozio di caramelle.

Mi sono iscritto – a ottobre 2012 – con un piano (io ho sempre un piano), in tre punti: a) verificare se Cicio xe per barca [espressione triestina, che significa se uno è adatto a fare una cosa, o no]; b) imparare la tecnica; c) pulire&sfrondare. Sono gli stessi punti che adotto – ad esempio – per il Wing Chun. Il piano funziona solo se hai degli insegnanti bravi che, nel mio difficile caso, devono anche essere dotati di forte personalità, altrimenti me li mangio. Sono stato fortunato: Alessia e Giovanni sono bravi.

Che si tratti di Wing Chun, sci o teatro, l’obiettivo è quello di fare le cose con armonia. La strada è lunga e la realizzazione la vedi nei Maestri, se sono davvero tali. Gigi (nel WC), Guido (nello sci) e Giovanni (a teatro) fanno quello che vogliono, come lo vogliono e sempre senza fatica apparente, senza strappi o scatti.

L’altra sera ho visto Giovanni all’opera: ci dava le intonazioni nei dialoghi. Riusciva a cambiare espressione vocale nei minimi dettagli, completamente padrone di quel che ci stava mostrando. Prima ho dimenticato di dire che i Maestri devono necessariamente essere anche modesti, altrimenti al massimo sono dei buoni istruttori.

Edo xe per barca, questo è appurato. Mi sono chiesto come mai. La voglia di mostrarsi è un presupposto, ma non è sufficiente: vorrei anche suonare la chitarra come Joe Satriani, ma riesco a stento a fare gli accordi principali. Quindi cosa c’è dietro la predisposizione? Dei fattori naturali e altri culturali: la mancanza di timidezza nel parlare in pubblico e – soprattutto – la scuola di espressione fattami da mia madre già in prima elementare, quando si trattava di recitare le poesie per la scuola. Evidentemente mia madre non solo sapeva come fare, ma anche come insegnarlo. Ho scoperto, studiando alcuni monologhi, di poter ottenere ottimi risultati sulla sola base delle istruzioni impiantate nella mia memoria all’età di 6 anni.

Poi c’è la voglia di comunicare qualcosa, di raccontarla per l’arricchimento altrui: lo stesso piacere che avevo nel leggere (anzi, interpretare) storie ai miei figli quando erano piccoli. Arricchire la conoscenza e/o stimolare l’immaginazione altrui. Questa voglia ha sempre fatto sì che io fossi un ottimo insegnante, sia all’università che ai corsi di formazione: avere qualcosa di (soggettivamente) interessante da dire, capire e usare la curiosità dell’uditorio.

Ma l’esprimere qualcosa che origina da sé stessi è molto narcisistico, anche se gli altri ne beneficiano. Il teatro richiede altro, che va oltre l’espressione di sé (per quanto interessante possa essere). Ci insegnano a pensare in termini di gruppo: non sei tu ad andare in scena, ma la rappresentazione. È un lavoro di squadra e si deve lavorare in squadra: l’individualità di una voce non può soverchiare le altre, anche se tu sei bravissimo e gli altri dei cani orrendi. Per me – naturalmente predisposto ai monologhi – è un utile insegnamento.

Un altro insegnamento riguarda la tecnica. Ho dei limiti evidenti, legati soprattutto alla voce. Inflessioni regionali e pronuncia a parte, quando parlo a voce bassa va tutto benissimo: riesco a dare l’espressione che voglio. Le cose si complicano quando i vincoli imposti dalla mancanza di microfono mi costringono a “parlare forte”. Qui ho molti problemi, perché il mio controllo è scarso e divento “stonato”. Vorrei pronunciare le cose in un modo e mi vengono in un altro. Ora finalmente capisco perché il 90% degli attori teatrali italiani mi sembrano dei tronfi tromboni: perché non sono padroni della propria voce e quindi risultano naturali come un nano da giardino e impostati come una statua di Lenin.

Un ulteriore problema – che non so quanto sia tecnico – dipende dal personaggio che devo interpretare. Ho le stesse difficoltà che avrebbe John Wayne nel fare una checca. Ogni tanto mi fanno leggere parti che con il mio carattere fanno a pugni. Questo è un limite che mi piacerebbe riuscire a superare, come Kaiser Soze quando finge di essere uno zoppo sfigato (“I soliti sospetti”). Mi riesce dannatamente difficile portare in scena qualcosa che non sono io o che almeno io non senta di poter essere in un’altra vita. Capisco perfettamente quegli attori che rifiutano certi copioni, dicendo che non fanno per loro. È senz’altro un grave limite professionale, ma solidarizzo. L’altro giorno dovevo fare un uomo indeciso, dubbioso, alle prese con una donna-gallina che sciorinava tutto il repertorio di ipocrisie e ricerche di rassicurazione tipico delle donne-gallina. Mi sentivo come Fonzie quando deve chiedere scusa: il mio sistema nervoso si rifiutava di collaborare. La frase d’esordio era “Mi sento avvilito”. Chi, io? Ma vaffanculo! Dietro l’impossibilità di pronunciarla, c’era la totale incapacità di mettermi nei panni di uno che pensa una cosa del genere. Preferisco fare la checca marcia. Poi c’era tutto un dialogo di rassicurazione di questa cretina che si era tinta i capelli di un colore che non la convinceva. Stavo vivendo un autentico incubo: l’istinto mi suggeriva di mandarla a cagare sulle ortiche (come avrebbe fatto Edoardo nulla interposita mora), mentre invece dovevo fare il simpatetico imbranato.

La domanda è: si può recitare la parte di uno che butteresti direttamente nel bidone della spazzatura, chiudendo bene il coperchio? Si può blandire (goffamente) una che lanceresti senza rimpianti dalla finestra? Più sottilmente: quanto siamo disposti a prestare la nostra faccia a un personaggio che ci disgusta? E perchè mai dovremmo farlo?

La domanda si può articolare anche come: cosa ci può spingere a rappresentare qualcuno che non ci interessa essere? La cosa può avere un senso – basta pensare a tutta la commedia italiana anni ’60: Sordi, Tognazzi, Gassman, Manfredi – se c’è un fine didascalico. Se – in altre parole – vogliamo mostrare/dimostrare una tesi. Quindi viene meno la rappresentazione di noi stessi, in funzione di un altro obiettivo. Ma è lecito chiedersi, allora, in cosa consista il piacere di recitare, se il personaggio non piace.

Il fatto è che a livello amatoriale l’interesse è proprio la rappresentazione di sé stessi. Oppure, ma credo siano casi rari, il mettersi alla prova su qualcosa che presenta difficoltà tecniche.

Ecco l’utilità, nel mio caso. Abbandonare l’idea di rappresentarmi, per migliorare non solo la tecnica, ma a questo punto anche la personalità. Si tratta di un’operazione di modestia e umiltà, per le quali non sono eccessivamente portato. Siamo alla funzione psicanalitica del teatro.

Buono a sapersi: serve anche questo.

2 comments

Rispondi a VENEZIANO Cancel reply

  • Anch’io, come Gigi, nel WC faccio quello che voglio… ogni mattina…senza fatica….

  • Ho approvato questo commento per due ragioni: il suo alto valore tecnico, e perché tutti possano vedere pubblicamente la forte personalità di PiPi… 😀

SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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