Pian di Spille

P
[vc_row css_animation=”” row_type=”row” use_row_as_full_screen_section=”no” type=”full_width” angled_section=”no” text_align=”left” background_image_as_pattern=”without_pattern”][vc_column][vc_row_inner row_type=”row” type=”full_width” text_align=”left” css_animation=””][vc_column_inner][blockquote text=”I ricordi – si sa – non hanno nulla di oggettivo. Spesso all’accaduto si sommano e “appiccicano” sensazioni e suggestioni che esistono solo nella propria mente, come nei sogni. Più tempo passa – e qui sono passati 30 anni – più quel che ne risulta non è una cronaca scientificamente documentata, bensì un’esperienza in gran parte interiore. Per fortuna: solo così, infatti, ciò che si è fatto contribuisce a ciò che si è. Pertanto vi racconto il “mio” Pian di Spille.” show_quote_icon=”yes” text_color=”#000000″ background_color=”rgba(0,0,0,0.1)” quote_icon_color=”#81d742″][vc_separator type=”transparent” up=”10″ down=”10″][/vc_column_inner][/vc_row_inner][vc_column_text]Ogni tanto ci facevano svegliare alle 5 di mattina. Erano le volte che si partiva con i camion, a fare sul serio i soldati. Si usciva dalla carraia, al buio e nel freddo, protetti solo dal telo del cassone. Per chi, come me e quasi tutti, non era di Roma, la destinazione era ignota e misteriosa, contraddistinta da un nome che non significava nulla, se non la sua suggestione toponima. Dove accidenti era, Pian di Spille? Da qualche parte, e più non dimandare.

Quel giorno avremmo sparato per la prima volta, per quasi tutti nella vita. Come al solito il viaggio – che ora so di 40 km – nella percezione durava 4, 5 ore di buio progressivamente più lattigginoso, fino a sfociare in una luce da Purgatorio. Nell’occasione, la prospettiva dell’imminente prova aiutava a dimenticare il disagio degli sballottamenti, del sonno, del freddo: avevamo qualcosa di fatidico a cui pensare. Finché non ha sparato, un soldato non può dirsi tale e noi stavamo per diventare dei Veri Soldati.

Arrivammo in un posto ventosissimo, sul mare. Laggiù in fondo, sulla battigia, dei pannelli alti come un uomo, con sagome umane prestampate: i nostri bersagli. Ci dissero che distavano cento metri, ma a me sembravano due chilometri. Ci fecero mettere in file indiane, dietro ogni piazzola di tiro. Per terra c’erano i fucili, i Garand, reliquie della Seconda Guerra mondiale. Avevamo già toccato quelle armi legnose e vecchie, che conservavano un odore di olii, di antico, di sudore (chissà perché). Pesavano incongruamente tanto. Ora so la ragione: il Garand è un fucile estremamente potente, in calibro NATO 7.62; la sua gittata è di un chilometro; è per questo che si spara verso il mare.

I primi di ogni fila, distesisi a terra, cominciarono a premere il grilletto, mentre noi sentivano il considerevole botto di ogni colpo e vedevamo i potenti effetti del rinculo. Dopo ogni serie, sfortunati addetti correvano, con gli scarponi e sulla sabbia, verso le sagome e ci appiccicavano dei foglietti di carta per tappare i buchi. Regnava una confusione indescrivibile tra il tuono dei fucili, gli incitamenti e i commenti dei compagni, il fragore delle onde, il fischio del vento, le urla degli ufficiali, le bestemmie degli addetti e le loro comunicazioni circa i centri. Mi piace credere di ricordare anche le proteste dei gabbiani.

Io ero tra gli ultimi. Quando toccò a me distendermi sul telone, per quasi tutti i miei colleghi l’eccitazione della novità era già passata, e le marziali file si stavano disgregando in drappelli sparsi, ognuno occupato in chiacchiere che probabilmente non contemplavano più il tema della giornata. La colla era finita e, tra il vento e l’esaurita diligenza degli addetti, presso le sagome era tutto un volar di foglietti. Così sono più che certo che, finito il mio caricatore, l’addetto al mio bersaglio gridò un numero a caso tra zero e otto (il contenuto del bifilare). Forse intimorito dal gran numero di buchi lasciati scoperti dai foglietti volati via, doveva aver gridato un numero alto, magari proprio otto. Io – come tutti – avevo sparato a caso, non potendo vedere a quella distanza né dove tiravo né se colpivo qualcosa. In precedenza ci era stato detto che il Garand aveva una diottra per la mira, ma non ci era stato spiegato né cosa fosse, né come funzionasse. Così, grazie alla stanca rassegnazione del mio collega, mi trovai beneficiato di un punteggio alto, forse molto alto. Fu così che, al termine delle comuni fatiche, noi “migliori tiratori” fummo richiamati in pedana, insigniti dell’onore di un secondo caricatore, che sparacchiai con la medesima mancanza di riscontri del primo.

Non ho idea di come, quanto e se la mia prova a Pian di Spille abbia contribuito a una fulgida carriera di Viscido, ma certo non mi ha arrecato danno. Càpita spesso che un buon rendimento in prove precedenti influenzi il giudizio su quelle successive, soprattutto se non misurabili con un minimo di precisione. Così mi immagino un ufficiale che si disse “Burlini? Ma sì, avrà senz’altro sparato bene, visto che ha voti alti”.

Questo fu l’inizio della mia vita di infallibile cecchino, che doveva attendere il poligono dei Carabinieri per avere qualche riscontro reale. Perché poi un riscontro lo ebbe. Ma chi volesse scrivere delle gesta di un giovane sniper dallo sguardo di ghiaccio e la presa di marmo, dovrebbe partire da quel giorno in cui il vento, le onde e i gabbiani furono i primi testimoni della sua futura gloria. A Pian di Spille, provincia – ora lo so – di Viterbo.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

3 comments

  • Ronald Reagan e la Thatcher decidono che Gheddafi deve tornare a pascolare le capre e così gli radono al suolo residenza presidenziale, impianti militari e pied a terre.
    Il buon Muammar ci rimane male, anche perchè gli ammazzano una figlia ancora, come si suol dire, in tenerissima età.
    Novello polifemo, sparacchia a caso un missile, forse l’unico recuperato dalle macerie, che finisce un parsec al largo di Lampedusa.
    Stringiamoci a coorte, ululano i nostri militari professionisti, distratti finalmente dalla brama predatoria indirizzata a merendine, carta igienica, carburanti, parmigiano, convalescenze alle terme, rimborsi per viaggi di servizio mai fatti e altro troppo lungo da elencare.
    Certo, non si può pensare a uno sbarco ad Anzio in salsa magrebina, ma si può ipotizzare qualche attentato da parte di cellule dormienti, risultate poi qualche cosa più che assopite, diciamo in coma irreversibile.
    Tanto basta però ad eccitare un po’ tutti e, al pari del Bar dello Sport, dove ognuno è in grado di guidare con facilità disarmante la Nazionale alla conquista del mondiale, la caserma diventa una fucina di strateghi, tattici e analisti che Bonaparte, Nelson e Francesco Baracca fanno loro una pippa.
    Intanto però è tempo di esercitazioni di tiro e bisogna portare qualche centinaio di reclute ai fatidici 5-6 colpi di schioppo per laurearli guerrieri a tutti gli effetti.
    Ci si deve recare in una valle del Friuli a prova di Sputnik, talmente è sperduta e nascosta. Allora non c’erano i navigatori, ma sono sicuro che anche oggi il GPS ti risponderbbe eeeh?
    Bene, si prepara il convoglio e il capitano che lo comandava, una sorta di dandy con uniforme di sartoria e cravatta da via dei Condotti, mi assegna, con qualche altro anagraficamente “vecchio” (era evidente che non si fidava dei diciottenni, anche perchè in una percentuale non trascurabile erano autentici animali) alla difesa armata della colonna.
    Era ovvio che agenti del bieco dittatore libico, in agguato ad ogni crocevia, erano pronti a sfuttare la ghiotta occasione per assaltare una santabarbara semovente, carica di modernissimi fucili con calcio in legno d’annata (solo quello avrebbe fruttato una fortuna da Sotheby’s), e cassette di munizioni stracolme.
    Per questa ragione era necessario fare una cosa fino ad allora inimmaginabile: tenere un caricatore inserito nell’arma e, questo sì è pazzesco, colmo di pallottole.
    Eccomi allora impavido e accigliato, che passeggio davanti alla truppa inesperta grondante bava a mò di bulldog, facendo mollemente dondolare con ostentata e annoiata indifferenza un FAL truppe alpine con calcio in metallo ripieghevole, roba da fighi, insomma noi mercenari che in Africa e Sudamerica ne abbiamo viste di tutti i colori, ci capiamo.
    Finalmente il convoglio si muove, naturalmente sono sulla AR76 di testa. Astutamente il comandante ha pensato che solo un pazzo o un kamikaze poteva tentare l’assalto contro popo’ di superardito di staraciana memoria.
    Infatti in qualità di deterrente ho fatto egregiamente la mia parte non avendo alcuno avuto il coraggio di sfidare la mia arte bellica. Alcune centinaia di uomini mi sono tuttora riconoscenti. Hanno potuto sposarsi e financo avere dei figli grazie alla mia occhiuta vigilanza.
    Insomma, dopo un paio d’ore di viaggio circospetto e irto di minacce e pericoli, arriviamo a destinazione.
    Bel posto, non c’è che dire, selvaggio, mosso, verdissimo e praticamente deserto, tranne che per gli agenti venuti da Tripolitania e Cirenaica nascosti evidentemente dietro gli alberi.
    La prima cosa che devono fare i soldati appena scesi è mangiare.
    I militari hanno ‘sta ossessione del cibo: bisogna mangiare, sia mai che non riesci a tirare il grilletto perchè non hai abbastanza calorie da dissipare in lavoro muscolare. Vai con le razioni K.
    Finito anche il cordiale finalmente si può incominciare (per il tresette postprandiale è tardino), amzi no, contrordine, bisogna prima chiamare per radio la caserma e chiedere il permesso. Perchè poi? Avrei capito se avessimo dovuto chiedere i codici di lancio di qualche cruise.
    Fatto sta che il marconista nella mia Jeep inizia con la solita solfa che conosciamo fin da bambini: tango delta (noi) a papacharlie (Comando Genio), cambio. Fzzzzzzzzzzzzzzz. Tango Delta a Papacharlie cambio…Fzzzzzzzzzzzzzzzzzz.
    Ok fa il capitano all’autista, vai, portaci su quell’altura là in mezzo, forse da lì ci riusciamo.
    Tango Delta a Papacharlie Fzzzzzzzzzzzzzzzz, altro cambio di collina, Fzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzzz. Fzzzzzzzzzzzz ovunque.
    Il capitano allora cambia espressione, ora somiglia a un Mastroianni scafatissimo, e fa: cazzo, sempre la solita storia, venite con me.
    Entriamo, armati come rivoluzionari messicani, in un improbabile bar da Route 66. Il proprietario e la moglie ci guardano nemmeno tanto stupiti, a riprova che era un consueto dejavu, e il tristellato, appena varcata la soglia, apre la mano in direzione del banco: 5 cappuccini e un gettone, grazie.

  • Se l’ordine è sparare si spara e basta. Non importa se sul bersaglio, in aria o ai cardellini. Non frega niente a nessuno. L’importante è ritornare senza munizioni a riprova delle maschie attitudini, non sopite da secoli di scoppole.

SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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