Le ragazze de L’Aquila hanno le gambe lunghe

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Sono stato a L’Aquila per guardarmi in giro e scoprire cosa c’è di vero in quel che dicono i giornali. L’Aquila non è Città del Messico, per cui capirne la topografia è semplice: c’è una città bassa, piuttosto orribile, con unico polo l’università. C’è una città a mezza collina, alquanto anonima. Poi c’è il centro storico sulla collina. La città bassa sta a posto, quella media anche, il centro storico è molto peggio di Sarajevo sotto assedio.

In sette anni dal terremoto hanno ricostruito o restaurato i principali edifici pubblici (la Banca d’Italia, la prefettura…), ma per esempio il duomo (bruttino anzichenò) è ancora chiuso.

Il centro de L’Aquila ha poche vie larghine (due) e molte vie strette, nelle quali le opere di restauro demolizione/ricostruzione sono oggettivamente ostacolate dalla mancanza di spazio per i cantieri: moltissime sono larghe 2-3 metri, e che mezzi ci vuoi far passare? Dal centro se ne sono andate – così mi ha detto l’albergatore – 20.000 persone. Tanta gente in meno significa che anche i negozi non pericolanti hanno chiuso, perché non c’era a chi vendere. Perciò lo spettacolo complessivo è un po’ inquietante, con molte finestre e vetrine vuote e altro vuoto dietro di esse.

Il mio albergo (Hotel Centrale) era stato rinnovato in sicurezza antisismica un paio d’anni prima del terremoto e non ha avuto un graffio. L’edificio prima e quello dopo hanno invece gli interni devastati, per cui dal terrazzo potevo guardare dentro le orbite delle finestre (a un metro da me) e sentirmi come miracolato. Il profilo della città vecchia – la skyline, insomma – ha molte più gru che San Gimignano torri: a 50 ho smesso di contarle. Era sabato ed erano tutte ferme.

Gli aquilani che ho incontrato lungo corso Vittorio Emanuele (la strada principale) sono diversi. Dai romani, dagli altri abruzzesi, da tutti. Mi sono piaciuti molto. Sembrano meno prigionieri di mode, atteggiamenti, look che altrove. Non sono provinciali che cercano di somigliare a cittadini metropolitani, non sono montanari con gli scarponi, non sono cittadini metropolitani che cercano di somigliare a newyorchesi molto indaffarati. Hanno un accento curioso, ma non pesante o ridicolo. Nessuno urla o parla a voce alta – esattamente come a Sarajevo, Skopje, Sofia – e ciò li rende almeno apparentemente molto educati. Sono cordiali senza risultare lecchini. Insomma, degni di rispetto. Almeno del mio.

L’Aquila vanta la famosa Fontana delle 99 cannelle, che visitai quando avevo 10 anni e perciò non mi ricordavo minimamente. Vale senz’altro una visita, perché è diversa da tutto quello che ci si potrebbe aspettare. Non sta dove si pensa dovrebbe stare, non somiglia ad altre fontane. Quando la vedi, capisci perché: è del ‘200, cioè Basso Medioevo, e ha tutta l’espressività architettonica e un po’ misteriosa di quel periodo. Ne consegue che la visita non consiste nel guardare un monumento ma – senza esagerare con le suggestioni – immergersi in un’atmosfera. Infine la fontana ha un preciso significato politico e storico e anche per questo è tutt’altro che “anonima”, ennesimo tributo decorativo o celebrativo di fatti sepolti dai secoli. Come si dice: ha un suo preciso perché.

L’altra cosa che non ti aspetti è il forte spagnolo del ‘500, che invece sta esattamente dove dovrebbe, vale a dire ‘n coppa a ‘o monte. Dà la stessa sensazione visiva di un elefante in un pollaio. È enorme, cazzutissimo, “intelligente” (progettato con grande preveggenza militare). Quanto a monumentalità e incombenza, se la gioca col Maschio Angioino di Napoli, e non sono noccioline.

La mia non vuole essere una cartolina turistica, ma una testimonianza di rispetto e un invito. L’Aquila merita il proprio nome.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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