A vent’anni, a Trieste c’è Bàrcola. Un’occasione unica per verificare non solo intuendo, ma guardando direttamente come la ragazza che ci piace risulti in mutande e reggiseno. Marketing verticale: la mattina la vedi all’università, il pomeriggio in costume da bagno, così sai se la vuoi vedere anche la sera. E per lei è lo stesso. Si chiama “prova Topolini”, dal nome del bagno più popolare della riviera.
Come in tutte le città, anche a Trieste ci sono ragazze di forme generose e ben distribuite. Forse per questo a Barcola staziona sempre una pattuglia di vigili urbani in motorino: serve ai primi rilievi stradali, dopo i tamponamenti che i soliti friulani, trevigiani o quant’altro provocano per aver guardato a lato invece della strada. (Nei primi anni ’80 furoreggiava il topless: record per le casse comunali).
Barcola è vetrina quanto caffè e gelaterie. In luglio e agosto, ci saranno 10.000 persone in costume da bagno. Su 5 km, fa 2 persone al metro. Metti che ci sono 5.000 giovani, e la metà ragazze. Fa una ragazza in costume da bagno ogni 2 metri. A volte in topless, quasi sempre con filo interdentale nel culo. Col passare degli anni e del costume, sempre più troiesche e sculettanti.
Questo è il mare di Barcola, il mare ufficiale. Il mare con cui ci siamo confrontati tutti. Non è solo faccenda di culi, tette e fisici palestrati. E’ soprattutto questione di socialità. Se non vuoi essere l’unico alpino che non beve grappa, prima o poi devi andarci e sottoporti al giudizio. Mens sana in corpore sano: bene, ora vediamo. Barcola non è un’opzione, è inevitabilità.
Passi di lì, d’inverno, pensando a come è andata l’estate precedente e come andrà la prossima. Ora sai che la figa rinomata non è poi così topa, mentre quella ragazza che intravedi ogni tanto in città sta molto meglio in costume che vestita. Probabilmente, senza costume sta benissimo.
Ma a volte anche i ventenni hanno dubbi. Anzi: perché a volte? I ventenni sono il regno del dubbio. Almeno quelli che conoscevo io. Ho sempre osservato da lontano. Sono sempre arrivato provenendo da qualche altra parte. Non per niente, mi chiamano The Flying Dutchman. Ho scoperto Barcola a quindici anni, così ne ho avuti cinque per prepararmi. E a venti ero più che pronto: ho bevuto la mia grappa di finto alpino col cuore di marinaio. Ma con dei dubbi. Il dubbio più grosso è che non fosse tutto lì, quello per cui valeva la pena. Riguardandomi indietro – ora – ho la fondata sensazione di essere stato un ventenne tra i più cretini. Ma con qualche dubbio, di quelli che a Barcola non trovano interlocutori. Forse non era stato per caso che d’estate, a Lignano, a dieci anni prendessi la bicicletta alle due del pomeriggio per girare per le strade vuote. Forse non era un caso nemmeno che a Venezia avessi fatto passeggiate solitarie per Santa Marta, il quartiere degradato dove c’è il carcere e poco altro. Grigie case popolari tra Metropolis e rivoluzione industriale. Tutto questo a Barcola non si addice. Da un’altra prospettiva, Barcola non si addice a tutto questo. Manca qualcosa.
Il golfo di Trieste è molto stretto, quasi come alla Spezia (ho detto quasi: niente è stretto come il golfo della Spezia). Il problema è che a Trieste ci arrivi proprio da Barcola, poi il centro frena la tua inerzia, così non arrivi mai dall’altra parte. Per farlo ti serve una Vespa. A vent’anni ho comprato la Vespa. E un giorno, stufo di girare per baretti, mi sono chiesto che ci fosse dall’altra parte. Così ho scoperto l’altro mare.
L’altro mare è lo stesso mare di Barcola, solo visto dall’altro lato. Differenza di prospettiva, ma a volte la prospettiva è tutto. Ha un altro colore, più cupo. Dalle sue sponde, si vede la città industriale: il porto, la ferriera, l’attracco delle petroliere, i cantieri in cui tagliano e accorciano le navi. E Barcola. Se ci vai col sole, non so perché, mi ricorda il New Jersey. Non importa che io non conosca per niente il New Jersey, ma Bruce Springsteen cantava qualcosa sul New Jersey che mi fa subito pensare all’altro mare. Sull’altro mare ci sono le dighe, segno che è più pericoloso. Sono tre, in una posizione che io, che di maree non capisco niente, trovo incongrua. Sono dighe nude, prive di contrassegni, come io, che non capisco niente di dighe, immagino debbano essere le dighe cazzute, quelle che servono davvero a qualcosa, e non solo a fare colore. Per la faccenda del colore, poi, va detto che queste tre dighe sono scure, molto scure, quasi nere. Tre dighe quasi nere su di un mare scuro.
A sei, sette anni, sul Corriere dei Piccoli ho letto un articolo interessantissimo, che parlava di serpenti di mare e altre creature misteriose e leggendarie. Forse anche per questo mi piace quando mi chiamano The Flying Dutchman. E indovinate a cosa assomigliava l’orizzonte su cui si stagliava il serpente nero che illustrava l’articolo. Bravi: alla linea d’orizzonte dell’altro mare. Solo chi non sa cosa sia il mare crede che le linee d’orizzonte siano tutte uguali. Falso e stupido, sono tutte diverse.
Sembra che stia descrivendo un luogo desolato, ma non è così. È solo diverso. Anche sulle rive dell’altro mare batte il sole, e anzi nelle giornate soleggiate hai la sensazione che l’aria sia piena, densa. Che non è come l’aria di Barcola, che invece è pesante di olii e aspettative. A Barcola tutto succede in fretta, e se non succede hai l’urgenza che accada. Ti prego, sbrigati ad accadere! Qui invece ogni avvenimento sarebbe una sorpresa, e l’aria non lo permetterebbe. Al massimo ogni tanto, dalla distanza tremolante del porto industriale, senti un basso colpo metallico, o una lontana ed enorme fresa all’opera. Ma non voglio neanche crediate che l’altro mare comunichi un senso di industriosità, di cantieri, di uomini al lavoro. No, tutt’al più ne serba un ricordo. Il senso dell’altro mare è individuale, strettamente personale. Se non avessi il terrore di fare poesia, lo chiamerei intimo.
Non sei solo. Ci sono persino bagnanti, uno per ogni mille che trovi a Barcola. Ma la scelta stessa di prendere il sole lì, davanti alle dighe scure, dice chiaramente che a nessuno interessa essere visto, e tantomeno mostrarsi. Sono bagnanti silenziosi, intenti ad attività imperscrutabili perché indifferenziate rispetto all’immobilità. Se li osservi con gli occhi di un frequentatore di Barcola, capisci che parlano un’altra lingua, di cui non sai il significato.
Non ho mai fatto il bagno nell’altro mare, perché mi fa paura. Credo serva una familiarità che non ho, un’abitudine dall’infanzia che mi è preclusa. Non sono di lì, vengo solo come ospite. Credo che, se provassi a entrare in acqua, ne verrei catturato e sparirei nelle acque scure.
Dalle rive di questo mare si vede Barcola, l’ho già detto. Si intuisce con la memoria quello che in quel momento vi accade, tra i diecimila che la popolano. Solo che da qui il loro muoversi appare quello di formiche intente a qualcosa che sembra senza senso. Barcola, vista da qui, è un agitarsi privo di significato. Non che si riescano a vedere le singole persone: ci saranno almeno otto chilometri in linea d’aria, e più di venti per strada. Ma ogni tanto cogli un luccichio, ti illudi di un movimento, ti ricordi di grida e risa, e capisci che da qui non hanno alcun perché.
Domani farai la prova. Tra gli amici, a Barcola, proverai a guardare verso di qua. E non vedrai niente di niente, neanche le dighe, troppo scure su di un mare scuro. L’altro mare, come tutti gli altri mari, lo scopri solo se ci capiti, altrimenti resta invisibile, come invisibili sono le sue motivazioni. Ma sai che esistono e ne sei stato testimone. Non puoi capirlo. Puoi solo ringraziarlo di essere lì, ad accogliere in silenzio i tuoi dubbi di barcolano insoddisfatto.