L’Altalena (cap.9 -2)

L

L’imperatore delle galassie continuava a piangere negli occhiali, e la cosa si stava facendo scomoda. Per di più, adesso che l’Altalena rispondeva a modo suo, mi era difficile controllare con sicurezza la mia stessa inerzia. Ci doveva senz’altro essere una relazione matematica precisa tra la mia spinta e il contributo autonomo dell’Altalena, e se a suo tempo fossi stato in grado di leggere gli studi tecnici di Akundjanov, probabilmente adesso avrei anche saputo quale. Ma in grado non ero, e quindi non sapevo quanto Velikie Kacheli accelerasse. Prima o poi, inoltre, mi sarei anche dovuto porre il problema di come fermarmi. Decisi di pormelo subito: se una minima spinta da parte mia veniva chissà come amplificata, una controspinta avrebbe dovuto avere un effetto smorzante. Provai, e se non fossi stato legato saldamente, probabilmente mi sarei schiantato al suolo da un’altezza di almeno trenta metri.

Così come accelerava più del dovuto, la Grande altalena parimenti decelerava. Subii così una brusca frenata, che mi riportò quasi istantaneamente sotto la fatidica ampiezza dei novanta gradi, dove il pendolo rispettava le leggi fisiche consuete. Fu traumatico, ma molto rassicurante. Rischiando l’osso del collo avevo dimostrato che l’inspiegabile comportamento che governava il mostro continuava a funzionare, sia pure con segno opposto: era una specie di controprova che non ero stato vittima di un’illusione.

I minuti successivi rappresentarono – credo – l’apice del mio trionfo. Mi sentivo come un astronauta di ritorno dalla prima e fortunata spedizione su Giove che, ormai raggiunta l’atmosfera terrestre, deve solo manovrare per cabotaggio. Avevo compiuto l’Impresa, e lodi e onori mi attendevano innumerevoli. Così mi lasciavo ondeggiare placidamente, rallentando ad ogni oscillazione, cullato dalla Grande Amica. Scesi stanco, ma felice. Avevo molto ma molto da raccontare, ai quattro venti. E – soprattutto – non ci sarebbe mai stato nessuno non disposto ad ascoltarmi.

Mi meritavo un premio speciale (razione K), così mi sedetti all’ombra del traliccio e mi diedi ai bagordi (spaghetti al pomodoro tedesco, costoletta alla milanese tedesca, patate arrosto tedesche, dolce della casa tedesco). Durante i festeggiamenti, un vago fastidio mi circolava nella testa: con tutta probabilità stavo lasciando Ahmanov a bestemmiare nel deserto. Il pochissimo avventuroso studioso forse era ancora lì, a chiedersi se mi avesse inghiottito qualche serpente o se avessi optato per una passeggiata di trecento chilometri senza avvertirlo che non tornavo per ora di cena. In tutta sincerità, di cosa pensasse non me ne fregava niente. Avrebbe trottato anche a dorso di mulo, quando Larson gli avrebbe comunicato perché era suo interesse venirmi a prendere con la fanfara.

Ahmanov non mi era mai rimasto troppo simpatico: invece che soluzioni, trovava solo problemi. Era pigro e sedentario, e si vedeva che il suo aiuto era più legato ai soldi di Wolverhampton che all’entusiasmo per una ricerca che pure si svolgeva nel suo stesso Paese. Era l’opposto di Dino, l’opposto di Larson e – speravo vivamente – l’opposto di me. Mi rendevo conto di essere un po’ sadico nei suoi confronti, ma sapevo anche che lui – come autoctono – avrebbe tratto anche troppa notorietà da un faccenda in cui aveva avuto una parte minima, che chiunque altro avrebbe potuto svolgere altrettanto bene, e probabilmente meglio. Non poteva essere stato per caso che l’angelo dagli occhi neri avesse voluto parlare solo con me. Ahmanov era un parassita: così decisi. E che restasse pure nel deserto, a smadonnare.

In realtà c’era un’altra ragione per cui non avevo fretta di tornare indietro. Anzi, diverse ragioni.

Una era che non mi sentivo troppo incline a cominciare a rispondere ai milioni di domande che inevitabilmente mi sarebbero piovute addosso da ogni dove. E i primi a farsi vivi in forze sarebbero state le autorità kazake di ogni specie, ordine e grado.

Legata alla faccenda delle domande c’era un’altra ragione. Ero solo, e stavo bene. Avevo passato molto tempo da solo, specie negli ultimi giorni. Ora il pensiero di rientrare tra la folla non mi sorrideva affatto. Avevo anch’io molte cose cui pensare, e l’isolamento era la situazione ideale per farlo. Trarre il bilancio di un’esperienza simile tra poliziotti, militari, servizi segreti, flash di giornalisti e schiere di fisici indemoniati (e molto, molto preoccupati) non era nelle mie possibilità né nei desideri: meglio il deserto, o il quasi-Caffè di Turgaj.

Poi c’era la terza ragione. Velikie Kacheli. Ora che non ne ero più spaventato, la machina mi sembrava quasi una vecchia parente. E’ vero, avevamo avuto i nostri momenti-no, ma ciò che era imputabile alla sua scontrosità e innata riservatezza era ormai acqua passata. Pensavo soprattutto a lei. Tra poco sarebbero arrivati gli scienziati, a sezionarla per bene. Chissà se l’avrebbero lasciata intera: probabilmente no. Se ne fosse rimasto qualcosa, c’erano due possibilità: o ci avrebbero messo un bel filo spinato intorno, con tanto di casematte, torrette e mitragliatrici (una versione in grande della recinzione delle altalene di Piazzale Rosmini), oppure si sarebbe fatta viva la Valtur, e tutte le altre in coro. Già vedevo i “pellegrini”, con videocamere e hamburger, in fila indiana per ammirare l’ottava meraviglia del mondo. No, questo l’Altalena proprio non se lo meritava….

Ma come potevo evitarlo? L’unico modo era starmene bello zitto, rispondendo con mesto scuotere di capo alle domande dei pochi attuali interessati, Larson innanzitutto.

Ne sarei stato capace? No. Io mi ero sbattuto, io l’avevo trovata, io ora sapevo. L’idea che un pastorello smarritosi nel deserto potesse riscoprire quello che avevo scoperto io, prendendosene il merito, mi agghiacciava. Se poi la riscoperta l’avesse fatta Ahmanov, durante un picnic un po’ fuori porta, la cosa mi avrebbe ucciso all’istante. No, no: se il mondo lo doveva sapere, era da me.

Mi venne il dubbio di essere un po’ stronzo. Ci pensai su, e conclusi che non avevo motivo di avere dubbi: ero proprio stronzo. Ma come! fino al giorno prima mi avventuravo dibattuto dai dubbi sulle romantiche strade dell’incertezza, e ora cercavo le strategie per ricavarne il meglio, tradendo la mia Grande Amica? Ma – di nuovo – che alternative c’erano? Avevo innescato una cosa di cui non avrei mai potuto immaginare la portata, e che ormai era impossibile fermare. Akundjanov era stato molto più discreto e abile, ma io ero prigioniero del mio percorso. Il mondo era ormai troppo piccolo, per l’Altalena, e qualcuno doveva pagarne le conseguenze. Non volevo essere io.

Avevo elencato tre ragioni. Ce n’era una quarta, la più importante. Di quello che avevo visto e provato sull’altalena ero sicuro. Ma la cosa era talmente enorme – il suo comportamento, dico – che un’altra verifica sperimentale non avrebbe nuociuto. E’ vero: Akundjanov aveva fatto fare prove e controprove, ai suoi pastori; sarebbero dovute bastare anche a me. Ma lì in quel momento c’ero io, e io soltanto: la verifica della verifica era una cosa quasi dovuta, da parte mia. La prossima volta che mi fossi sentito spingere da Lei, invece di farlo io, non solo avrei riprovato quel brivido unico che segnava la fine della Termodinamica nei termini sinora conosciuti, ma avrei avuto una definitiva rassicurazione – al di là di ogni possibile dubbio – che era proprio tutto vero.

Da ultima, restava la questione del “tempo del Mondo”. Non che me ne importasse molto, ormai, ma avevo ancora un po’ di curiosità nel voler capire se questo corrispondeva al periodo del pendolo a 90 gradi (quando si innescava l’incredibile accelerazione) o a cos’altro. In altri termini: il professore e le leggende parlavano dello stesso oggetto, ma parlavano anche del medesimo fenomeno? La domanda non era banale, e poteva essere formulata anche diversamente: quanto aveva spinto l’Altalena Akundjanov (o chi per lui) e quanto l’avevano fatto gli ipotetici sacerdoti del rito del Tempo? Possibile che l’uomo di Akademgorodok si fosse accontentato di scoprire che il mostro iniziava ad avere un comportamento apparentemente assurdo a 90 gradi, e non si fosse spinto oltre? A 120 gradi, per esempio, cosa succedeva? Aveva anche Akundjanov trovato il tempo del Mondo? E se sì, perché nel suo articolo non ce n’era traccia? Con quello che aveva scritto, non correva certo il rischio di poter risultare ulteriormente ridicolo, il buon tagiko.

Quindi avevo un piano, molto semplice: sarei salito per l’ultima volta sull’Altalena, per andare più in alto che potevo, e vedere cosa succedeva. Come Pierpaolo.

Poi avrei chiamato Larson, Ahmanov, i Marines, il Settimo Cavalleggeri…

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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