Cap. 10 – Altri orizzonti
Velikie Kacheli stava davanti a me, poi fu sopra e intorno. Emanava imperturbabilità e potenza. Quel che un attimo prima sembrava ovvio e scontato, sotto il traliccio appariva molto meno inevitabile: io sapevo cose che probabilmente l’Altalena non aveva mai dovuto affrontare, ma chissà quante ne sapeva lei, di cui io non avevo il minimo sospetto. In ogni caso, ora la fila di turisti in attesa davanti al seggiolino non riuscivo proprio ad immaginarmela: sarebbe senz’altro successo qualcosa a impedire che ciò potesse accadere. Magari si sarebbero scomodati in persona i sacerdoti del rito del Tempo, ma ero certo che il mostro non avrebbe mai dovuto sopportare quell’onta.
Mentre salivo verso il seggiolino con l’ormai sperimentato sistema, riflettevo anche sull’opportunità di telefonare a Larson per comunicargli le straordinarie novità delle ultime ore; d’altro canto, se me ne fossi astenuto, avrei avuto più tempo per riflettere sul da farsi, e forse potevo trovare un altro modo per assicurarmi un passaggio verso Turgaj. Così non telefonai.
Stavo per partire per il mio ultimo viaggio. Mi ancorai ancora più saldamente che nelle due precedenti occasioni, indossando subito la felpa e anche una leggera giacca a vento impermeabile. Sembrava assurdo, considerato che lì attorno ci dovevano essere trenta gradi, ma tra poco sarebbe stato solo pratico. Come un prestigiatore dilettante che si è appena impadronito di un trucco particolarmente difficile, iniziai la manovra di avvio con un misto di timore per un insuccesso e il desiderio di mostrare a me stesso che sapevo cosa fare e come. L’Altalena non mi tradì: ben presto si udirono i rintocchi come di campana lontana, e quando le aste entrarono in risonanza il meccanismo si mosse. Cercavo di immaginare quale prodigio di tecnologia dovessero rappresentare gli snodi superiori, che sopportavano un peso notevole eppure non resistevano ad una forza così modesta. Anche le aste erano un bel mistero; avevo concluso che non c’erano saldature perché non ce ne potevano essere: in basso non ne vedevo, e in alto il peso delle aste le avrebbe fatte saltare. Le aste!: più di cinquanta metri di un metallo – il ferro – in genere molto elastico, invece perfettamente rigide in ogni momento della corsa. Com’era possibile? Tra non molto, qualche ingegnere saputello ce l’avrebbe spiegato.
Cominciai a oscillare. Avevo fretta di raggiungere i 90 gradi, per essere dannatamente sicuro di non vivere in un sogno, ma ci volle comunque qualche minuto, durante il quale il mio abbigliamento mi immerse in un bagno di sudore. Credevo di non farcela, bardato com’ero, ma ecco che di nuovo, al limite delle mie forze, d’improvviso fui io a essere spinto: Velikie Kacheli aveva iniziato a sfidare la fisica.
Ora era tutto facile, bastava stendere le gambe perché la leggera spinta si moltiplicasse per un fattore che neppure Akundjanov era riuscito a catturare compiutamente nelle sue equazioni. Non avevo modo di misurare con precisione l’ampiezza del movimento, ma ormai dovevo essere quasi a 120 gradi. Non stava succedendo niente di insolito, a parte il fatto di percorrere un centinaio di metri a velocità variabile. Scendendo, evitavo di guardare in basso; la mia assodata insensibilità alle vertigini veniva messa a dura prova. Se fosse stato per me, il seggiolino l’avrei messo a venti metri da terra, non a cinque!
Pensavo, senza ragioni specifiche, che se qualcosa doveva succedere sarebbe stato a frazioni intere o multipli di pigreco: così, per omaggio alla trigonometria. Ma chi aveva progettato l’Altalena non doveva conoscerla, la trigonometria. Ero ormai oltre i 135 gradi, e a parte il vento impetuoso che io stesso stavo provocando, il sibilare delle aste, l’inspiegabile accelerazione aggiuntiva, il fenomenale panorama, il mio stato di euforia (invece facilmente spiegabile), tutto si svolgeva come fossi sul tram della circolare. Niente orologi cosmici, nessun canto angelico.
Dovevo essere ormai vicino ai centottanta gradi, e ai due apici avevo enormi problemi di equilibrio. In questi punti le aste erano quasi orizzontali, e reggermi era problematico. All’inizio dell’oscillazione vedevo davanti a me, ad altezza degli occhi, la guglia del traliccio. Benché la mia distanza da essa non potesse ovviamente mai variare, vedersela proprio davanti mi dava una sensazione di allontanamento dalla struttura (il che, sotto un certo punto di vista, era vero). Retrocedere era sgradevole, mi procurava quasi la nausea: i montanti si allontanavano, mentre il mio sguardo risaliva lungo di essi, finché non compariva la guglia; in quel momento mi dovevo preparare alla folle discesa, evitando accuratamente di guardare in basso. L’unica mia assicurazione contro il fatto che prima o poi si sarebbe sfasciato tutto era nell’Altalena stessa, che dal primo istante mi aveva dato l’impressione di assoluta integrità. Del resto, i pastori ci erano saliti, e se ogni volta tornavano da Akundjanov voleva dire che ne erano anche discesi tutti interi. Ma adesso cominciavo ad avere qualche dubbio che si fossero mai spinti fin dove mi stavo spingendo io: vincere una gara di ardimento contro di loro non mi avrebbe consolato, se per farlo fossi morto.
Ero sicuro di essere in prossimità dei 180 gradi: la guglia ora mi stava quasi sotto. La mia stava diventando un’impresa sotto il punto di vista fisico, non per lo sforzo di spinta (quasi assente) ma per quello di restare in equilibrio, benché la mia imbragatura apparisse resistente.
E ancora non era successo niente: il tempo del Mondo si doveva capire in un altro modo, conclusi. Oppure, molto probabilmente, non esisteva nessuna stronzata del genere.
Se andavo avanti così, avrei presto raggiunto il fine-corsa. Già: dove stava, su Velikie Kacheli, il fine-corsa? Non molto oltre dov’ero. Dentro la guglia di legno ora ne vedevo un’altra, più piccola, di ferro. Era più acuta della prima, perché il vertice superiore era in comune. A circa metà altezza della piramide di ferro e verso la sua parte superiore, il numero delle sbarre di ferro raddoppiava. Gli snodi dell’altalena poggiavano su due di esse; le aste sarebbero state quindi indipendenti l’una dall’altra non fosse stato per un giunto, saldato appena sotto gli snodi. L’architettura era ingegnosa e molto robusta: l’intero peso delle aste si scaricava prima sulla piramide di ferro, quindi sulla guglia, e da qui sull’intera struttura portante. A occhio e croce, a disposizione delle aste c’era ancora un gioco di 45 gradi, prima che queste cominciassero a cozzare contro il legno della guglia esterna. L’Altalena sembrava quindi permettere un’ampiezza massima di circa 225 gradi: niente, se pensavo a Pierpaolo, ma abbastanza se consideravo che a quel punto sarei stato a circa 85 metri da terra.
Aveva senso, proseguire? Ooh, adesso la risposta ce l’ho, ben chiara. Un senso l’aveva, altroché. Ma in quel momento non possedevo risposte, e mi trovavo a dover scegliere in condizioni a dir poco difficili. Stavo operando in una situazione estrema per lo stordimento causato dal vento, il disagio di una scarsa protezione di fronte a qualsiasi imprevisto, l’assodato fatto di trovarmi su un ottovolante di cui tutto si poteva dire, tranne che rispettasse le leggi su cui gli ingegneri solitamente basano i propri calcoli costruttivi.
A decidermi non fu l’immaginare cosa sarebbe successo andando avanti, ma piuttosto se mi fossi fermato. Sarebbe stato come spegnere le luci, probabilmente per sempre. Avevo fatto 30, potevo fare 31. San Pierpaolo mi guardava dall’alto dei cieli, aspettando di osservare il mio fine-corsa, dopo che quarant’anni prima io avevo contemplato il suo. Era giusto: a ognuno la sua altalena.
Ora i calcoli li ho fatti. A 180 gradi di ampiezza, la velocità media di un pendolo semplice ideale lungo 55 metri è di 203,72 Km/h. Velocità media. Quindi andavo ad una media di 200 all’ora (salvo gli attriti da una parte e l’accelerazione aggiuntiva dall’altra), ma ciò significava che la mia velocità massima era di molto superiore. Era comprensibile perché – scendendo – guardassi malvolentieri in basso. La mia attrezzatura era palesemente inadeguata per la follia che stavo compiendo: non riuscivo neanche a immaginare le distorsioni subite controvento dalla pelle della mia faccia. Probabilmente, una volta sceso avrei avuto bisogno di un cachet contro il mal di denti. Ma quando il gioco si fa duro eccetera eccetera, no? E poi il cachet l’avevo, nello zaino.
Fu così che l’Ultimo Cavaliere di Piazzale Rosmini, salito di nuovo oltre la guglia, raccolse la sfida di Velikie Kacheli e stese prepotentemente in avanti le gambe.