L’Altalena (cap.8 -2)

L

Avevo in mano il satellitare, e mi prese l’impulso di chiamare Larson. «Indovina, Lars, dove sono seduto?….». Ma che gli avrei risposto quando mi avrebbe chiesto come andava questa famosa altalena? Che non ero ancora riuscito a metterla in moto? Meglio aspettare di vedere se le mie scarse cognizioni di Fisica davano qualche frutto. Rimisi nel taschino il mio contatto con il mondo, e mi preparai.

Impulsi in fase, ritmo. Sistemandomi bene al centro del seggiolino, per evitare rischiosi rinculi all’indietro, diedi un primo colpo su entrambe le aste, da dietro in avanti, a palme aperte. Non troppo forte, non troppo piano. La vibrazione dei colpi si propagò verso l’alto. Dopo circa un secondo ripetei l’operazione, e continuai così, sforzandomi di tenere un ritmo il più possibile costante. Se doveva funzionare, l’avrebbe fatto senza bisogno che mi facessi male alle mani: era il periodo a contare, non la forza.

Dopo circa dieci-quindici colpi, sentii un rumore che proveniva dall’alto; era come se una campana, lontanissima ma estremamente grande, avesse cominciato a battere i suoi rintocchi: un suono cupo e metallico, che vibrava nell’aria. Era il suono dell’Altalena, il primo che sentivo. Capire che l’immensa macchina si stava svegliando mi travolse con un misto di emozioni. Euforia, perché avevo avuto ragione; panico, perché a quella macchina mi ero letteralmente legato e ora come ora non potevo scendere; aspettativa, perché sapevo che ero solo all’inizio di un’esperienza che in pochi avevano fatto.

I rintocchi dell’Altalena mi aiutavano a tenere costante il ritmo dei colpi, benché i primi non fossero sincronici con questi: io battevo, e dopo qualche istante l’Altalena risuonava (o forse era l’effetto del colpo precedente, non lo so). Ma man mano che le mie palme si stancavano a forza di colpire le aste, il suono che proveniva dall’alto si faceva sempre più forte, ponendosi progressivamente in fase con il mio battere.

A un certo punto, a ogni colpo cominciò a corrispondere immediatamente un rintocco, che ormai era un rimbombo. Un istante dopo mi sentii scivolare impercettibilmente all’indietro. Il seggiolino si era mosso, l’Altalena si era messa in moto.

La prima oscillazione era stata di un centimetro, o addirittura meno. Per la sorpresa avevo smesso di battere e mi ero aggrappato alle aste, così che la seconda oscillazione fu quasi impercettibile. Ma ormai avevo capito il trucco, e quando ripresi a picchiare sulle aste, l’ampiezza aumentò di nuovo. Adesso che ero partito, non solo potevo ma dovevo oscillare anch’io. La risonanza aveva avviato il pendolo, ma non era lei a poterlo mantenere in moto. Lo stesso principio che mi aveva permesso di superare il primo ostacolo ora rischiava di far fallire l’operazione: ad ogni colpo che davo, la sua reazione – che mi spingeva all’indietro – contribuiva a smorzare l’oscillazione. Era il momento di spingere di nuovo con le gambe, come avevo imparato all’età di tre anni, e con lo stesso impegno.

Piano piano, senza fretta, il dondolio aumentò, e con questo i rintocchi si affievolirono fino a sparire. Ne ero lieto: quel suono metteva ansia. Ora ero alle prese con un problema di forza fisica: quanto avrei dovuto spingere, per muovere un’altalena di una tonnellata? Ma era un falso problema. Superato l’attrito, la minima spinta in direzione del moto era sufficiente a far accelerare l’altalena; a occuparsi di contrastare il peso delle aste era l’invisibile cerniera del fulcro.

Ora oscillavo liberamente, controllando a piacere la spinta: era una sensazione meravigliosa. Il sole proiettava sul terreno l’ombra del mio arco, ormai ampio una decina di metri. L’aria calda mi veniva incontro asciugando le ultime gocce di sudore sul viso: era una brezza piacevole, che si rinforzava mano a mano che – con l’arco – aumentava la velocità. Cominciavo anche a capire perché il seggiolino fosse stato posto tanto in alto: vedere la terra avvicinarsi dopo una rincorsa di diversi metri provocava un effetto simile a quello delle montagne russe, di piacevole spavento; se avessi oscillato per – diciamo – trenta metri, l’effetto sarebbe stato impressionante: meglio quindi avere un buon margine di sicurezza. In ogni caso, l’Altalena non era fatta per chi soffrisse di vertigini: guardare in basso mentre essa accelerava non lasciava indifferenti; ai due apici ero ormai a più di dieci metri dal suolo. Mi tenevo ben saldo alle aste (cui ero comunque assicurato tramite l’imbrago) perché nei due brevi attimi di sosta tendevo a scivolare o in avanti o all’indietro, a causa della gravità, ma nel complesso l’esperienza era elettrizzante.

Ero venuto per trovare l’Altalena, e l’avevo trovata. Ero venuto per provarla, e la stavo provando. Ma ero venuto anche per un’altra ragione. Anzi, per altre due ragioni.

Quell’altalena serviva a provocare un’esperienza mistica, capire il tempo del Mondo. E – in tutta onestà – l’unica cosa del tempo che mi aveva fatto capire finora era che questo sembrava scorrere più velocemente che altrove, ma probabilmente per pura suggestione. Era tutto qui? Era come un mantra, o una danza sufi, che innescano visioni mistiche per rimbambimento? Ne sarei stato deluso, ma non stavo sentendo nessun ticchettio di orologi galattici, per ora.

L’altra ragione era quella descritta da Akundjanov: l’Altalena doveva avere un comportamento anomalo. E per il momento non c’era niente di anomalo: dondolavo ampiamente e velocemente, ma non stavo decollando verso le stelle. Che Velikie Kacheli avesse esaurito le pile atomiche?

Mi chiesi cosa dovevo ancora fare, per svelare almeno uno dei due misteri. Da buon occidentale, mi fidavo più di Akundjanov che delle leggende, benché le implicazioni dell’articolo del russo fossero ben più drammatiche – se prese sul serio – di un’esperienza mistica. Ma certamente il professore (o i suoi pastori) aveva visto qualcosa, si era reso conto di qualcosa, che doveva essere tanto evidente a lui quanto a me ancora precluso. Viceversa, circa il “tempo del Mondo”, poteva essere che una particolare velocità dell’altalena lo segnasse, secondo i credenti. Una velocità qualsiasi, forse quella il cui periodo corrispondeva al tempo necessario per dire ‘Alakazam!’ o ‘Abracadabra’. Già mi immaginavo i fedeli ai piedi del colosso, mentre un officiante ci dondolava sopra, ripetere un qualche versetto in sintonia con il moto del pendolo: il tutto poteva segnare il tempo del Mondo, secondo loro. In questo caso, l’Altalena non sarebbe stata che un metronomo, di quelli ingombranti.

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By Redazione

SU DI ME

SONO EDOARDO, NATO A TRIESTE NEL 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale.

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