
Nyarlathotep
Tra gli incipit più fulminanti di sempre, brilla quello di “Nyarlathotep”, un breve e intenso racconto di Lovecraft.
Nyarlathotep, il Caos strisciante. Io sono l'ultimo. Parlerò al vuoto in ascolto.
Il racconto è del 1920 e introduce Nyarlathotep nel pantheon della cosmogonia di Lovecraft. Nyarlathotep è un dio, messaggero astuto e sfuggente di altri dei, definiti dall’autore “stupidi e indifferenti, lenti, goffi e assurdi”.
Sullo stile e l’ampiezza del vocabolario di Lovecraft sono state spese molte parole, quasi mai troppo benevole; si dice che quando non sapeva come rendere un concetto attinente al macabro o all’inquietante, usasse la parola-jolly “orribile”. In parte è vero: per contare gli “orribile” nei suoi racconti non basta un pallottoliere.
Tuttavia, nel caso di “Nyarlathotep”, in quattro semplici pagine il capostipite dei racconti dell’orrore riesce a rendere un’atmosfera malata e incombente – più suggerita che descritta – di desolazione ineluttabile, fatta della materia degli incubi senza scampo. Non c’è violenza, nel racconto, ma ‘semplicemente’ la fine della speranza. Quella fine che fa dire al protagonista/narratore
“io sono l’ultimo”
e che nella solitudine di un mondo cambiato per sempre può solo esprimere l’ultimo atto volontario e disperato di imperfetta umanità:
“parlerò al Vuoto in ascolto”.
Quattro pagine che vale senz’altro la pena di leggere, se non altro per capire a cosa si sono ispirati tutti quelli venuti dopo Lovecraft.