Sullo stile e l’ampiezza del vocabolario di Lovecraft sono state spese molte parole, quasi mai troppo benevole; si dice che quando non sapeva come rendere un concetto attinente al macabro o all’inquietante, usasse la parola-jolly “orribile”. In parte è vero: per contare gli “orribile” nei suoi racconti non basta un pallottoliere.
Tuttavia, nel caso di “Nyarlathotep”, in quattro semplici pagine il capostipite dei racconti dell’orrore riesce a rendere un’atmosfera malata e incombente – più suggerita che descritta – di desolazione ineluttabile, fatta della materia degli incubi senza scampo. Non c’è violenza, nel racconto, ma ‘semplicemente’ la fine della speranza. Quella fine che fa dire al protagonista/narratore
“io sono l’ultimo”
e che nella solitudine di un mondo cambiato per sempre può solo esprimere l’ultimo atto volontario e disperato di imperfetta umanità:
“parlerò al Vuoto in ascolto”.
Quattro pagine che vale senz’altro la pena di leggere, se non altro per capire a cosa si sono ispirati tutti quelli venuti dopo Lovecraft.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]