L’Altalena (cap.5 -4)

L

Il giorno stesso tornammo a Turgaj; io eccitato, Ahmanov imperscrutabile. Avevamo promesso alla vecchia di rifarle visita, e lei ci aveva assicurato che ci avrebbe dato ospitalità. Ai saluti, la ragazzina mi aveva scrutato in silenzio da dietro le spalle della nonna, con un’espressione enigmatica. Forse perché sono un bell’uomo.
Passarono tre giorni di snervante attesa, ma non invano. Anche Larson era uno che sapeva fare il proprio lavoro, e le informazioni che aveva raccolto me lo confermarono. Che strano – gli avevano risposto dagli archivi di Alma Ata – le persone di cui aveva chiesto notizie erano annotate come scomparse. Nel 1976. Tutte e sei.
Mi venne così: «Lars, non è che per caso sai anche in che mese?». Silenzio. Attesa. «Sì, ho le date. Tra maggio e luglio».
Chiusi in faccia a Larson la comunicazione, e feci una seconda telefonata. Kvitko fu sorpreso di sentirmi, e fu altrettanto stupito dalla mia domanda. Dal suo vocione appresi che l’ultima volta che aveva visto Akundjanov doveva essere primavera inoltrata, “qualche tempo prima” della scomparsa accertata del fisico. Ringraziai il vecchio Anatolj, spensi il telefono e fermai i motori.
Uscii, incamminandomi verso i tavolini dell’unico locale di Turgaj che potesse definirsi “Caffè” senza timore di una denuncia da parte della locale associazione consumatori. Mi sedetti. Riavviai i motori.

Sette uomini che lavorano a un bizzarro esperimento scompaiono nel medesimo periodo. Sette su sette, l’intera forza-lavoro dell’articolo “Velikie kacheli”. Sin qui, i fatti.
Ipotesi uno. L’esperimento è bizzarro, ma non folle. Il Comitato per la Sicurezza dello Stato (più noto per l’acronimo: KGB) lo sa, magari sa anche qualcos’altro che non so io, quindi decide di far cambiare permanentemente aria ai magnifici sette.
Ipotesi due. Per qualche loro buona ragione i magnifici sette decidono di proseguire l’esperimento lontano da occhi indiscreti. Fondano il club della grande altalena e si danno alla macchia, finché morte non li raggiunge sul serio.
Ipotesi tre. In un’ultima seduta sperimentale – la prima per Akundjanov – non necessariamente segreta, qualcosa va storto e i sette si vaporizzano nello spazio duale. I vari organismi ufficiali russi preposti all’esperimento (scientifici e meno) mettono tutto a tacere, per l’imbarazzo del leso prestigio di Akademgorodok.
In tutte e tre le ipotesi – osservai – non potevo più prescindere da un effettivo e attivo ruolo dell’altalena, che era il perno delle sette storie individuali. I sette si erano mossi per qualcosa, non per niente. Qualcun altro forse (vedi Ipotesi uno) si era mosso sulle loro mosse ma – di nuovo – non senza motivo.
L’altalena, in qualche forma, doveva esistere.

La vecchia contadina non aveva mai sentito parlare dell’altalena (già chiesto), ma forse qualcun altro, magari in un altro villaggio, sì.
Per questo organizzammo un altro viaggio, che avrebbe toccato anche il secondo paesello sopravvissuto, e magari altri, se ne avessimo trovati. Ahmanov non era per niente entusiasta, ma le sterline di Larson valevano più della sua accidia.
Così, avute le informazioni da Larson, tornammo dalla vecchia con la prospettiva di farci un’altra chiacchierata di approfondimento, per poi esplorare un altro po’ di terre semidisabitate.
Ci accolse cordialmente, accettando di buon grado i nostri doni. La nipote, quando ci vide, ebbe un guizzo negli occhi. Poi tornò al suo compito di fedele domestica.
Il secondo incontro non produsse niente di interessante: l’anziana contadina ci aveva già detto tutto quello che sapeva, e ce ne saremmo andati subito se non fosse stata già sera, con l’altro villaggio che distava quasi cento chilometri.
Alle prime luci dell’alba, sentii bussare alla mia porta (la casa era grande, le stanze vuote molte, godevo di un alloggio personale). Era la ragazza, visibilmente nervosa e vigile. Già mi vedevo trascinato in catene in qualche tribunale islamico per abuso di minorenne, quando lei mi fece cenno di alzarmi. Buon segno: peggio sarebbe stato infatti se si fosse seduta lei. A voce bassissima per non farsi sentire dalla nonna, e in un russo così rozzo ed elementare da gareggiare con il mio, mi disse: «Mama…Akademgorodok…biblioteka».
A vederla entrare, per poco non avevo fatto un salto: lo feci adesso. Usai tutta le tecniche comunicative a mia disposizione: parole, gesti, disegni. Fu così che in un’ora, grazie ai suoi cenni di assenso o diniego e alle sue smozzicate parole, misi insieme la penultima tessera del puzzle.
La madre della ragazzina non era morta, ma era fuggita. Era stata ripudiata dalla nonna, e aveva dovuto lasciare la figlia piccola. Questo perché si era “comportata male” con un uomo. Ad Akademgorodok, dove molti anni prima, appena adolescente, era entrata come addetta alle pulizie, grazie all’interessamento del parente collaboratore di Akundjanov. Ma la futura fedifraga era in gamba: aveva imparato molte cose, in Siberia. Un bel po’ più che leggere e scrivere: col tempo era diventata una specie di aiuto alla bibilioteca. Di quale istituto? Di quello di Fisica. Poi si era sposata al villaggio, ma le cose col marito a 1500 chilometri di distanza non potevano funzionare. E così si era ritrovata con una bimba da una parte e un altro uomo da un’altra.
La mamma veniva una volta l’anno a trovare la figlia, per il suo compleanno. In quei pochi giorni di visita raccontava alla piccola delle storie, per farla addormentare. La favola che le piaceva di più parlava di un’altalena, un’altalena molto grande.
La ragazzina si era spiegata quasi piangendo. Quando le lacrime le uscirono sul serio, per pudore fuggì a precipizio dalla stanza. Per pudore, non la inseguii.

Era comprensibile che la nonna, per la vergogna del disonore, non avesse trovato opportuno menzionare il contatto familiare diretto con Akademgorodok. D’altro canto, noi un’esplicita domanda in merito non l’avevamo fatta, non potendo ovviamente sospettare un simile intreccio da telenovela: la vecchia era in buona misura giustificabile.
Io non riuscivo più a dormire, così mi alzai e uscii nelle prime luci del giorno. Fumai – credo – un pacchetto di sigarette in un’ora. Al mio ritorno, Ahmanov era quasi pronto a partire, e quindi ci apprestammo a congedarci dalla casa dei misteri. Della ragazzina non c’era traccia.
Salimmo in macchina e ci avviammo. Eravamo quasi fuori dal paese, quando una piccola figura ci fece grandi cenni con la mano, e Ahmanov accostò.
La bellissima nipote della vecchia venne al mio finestrino, e mi fece cenno di abbassarlo. Credevo non potesse resistere al mio fascino latino, mi volesse baciare e chiedermi di sposarla. Invece si avvicinò al mio orecchio, e sussurrò: «Kacheli…Barsuki». Poi alzò un dito, indicando il sud. Quindi svanì nel mattino.
Fu il primo e ultimo angelo che ho visto in vita mia.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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