L’Altalena (cap.4 -2)

L

La città della scienza non era stata fondata verso la fine degli anni ’40 da Stalin, ma nel 1958 da Krushev. Quindi Akundjanov non era (ancora, almeno) un fallito, ma una personalità di punta della ricerca, evidentemente mandato lì per premio e non per espiazione: tutto il contrario di quel che mi aveva lasciato credere il mio amico dell’ambasciata russa. Ciò gettava una luce alquanto diversa sulla rilevanza degli studi dello scienziato. Akundjanov era arrivato ad Akademgorodok quando la spinta ideale del centro si stava ancora manifestando, e le ricerche che vi si svolgevano erano considerate di frontiera, tutt’altro che marginali. Con queste premesse, strano piuttosto che il suo impegno non avesse avuto un seguito, ma bisogna dire che a volte le strade percorse ad Akademgorodok erano così eterodosse da dover essere abbandonate dopo qualche tempo, per mancanza di risultati immediati. Apparentemente era quanto capitato ad Akundjanov.

Ciò sosteneva un’ipotesi che avevo sempre considerato come ovvia, ma sinora per ragioni diverse: il professore russo-tagiko era probabilmente l’unico depositario delle proprie scoperte. Ritiratosi lui, anche il suo lavoro era morto. Solo un fatto guastava la mia ricostruzione: la citazione su internet. Forse si trattava di un caso, anzi senz’altro era così, ma restava il fatto che qualcuno si era dato pena di nominare “La potente altalena”, in modo da renderla disponibile ai motori di ricerca. Adesso che ci pensavo, a suo tempo non avevo badato a controllare la fonte dell’informazione. Dovevo rimediare.

Provai a tornare dal programmatore di tre anni prima, che ovviamente non lavorava più lì. Dopo gli albatross, i programmatori sono notoriamente la categoria di animali più migranti del globo. Era però sopravvissuto il suo motore di ricerca, che interpellai con l’ausilio di un altro sacerdote del virtuale. La scoperta fu delle più banali: la citazione dell’articolo era stata inserita ad Akademgorodok, probabilmente da un bibliotecario. Nei miei sei mesi di lavori forzati in Siberia non avevo pensato di fare il giro dei bibliotecari, prima troppo soddisfatto per aver trovato l’articolo e poi troppo deluso dalla sua lettura. Così non aggiunsi alcun indizio a quelli che già avevo. Invece, come presumibile, le tracce dell’altalena si erano moltiplicate. Il guaio è che facevano tutte riferimento al nostro lavoro di Wolverhampton. A scorrere nel fiume era sempre la stessa acqua.

Sullo sfondo restava sempre la stessa domanda, che era sempre priva di risposta: Akundjanov parlava con cognizione di causa, o no? Sinora, i tentativi di smentirlo una volta per tutte, screditando la sua immagine, erano falliti. Anzi, proprio da questi tentativi era infine emersa la serietà del suo lavoro.

Rilessi per l’ennesima volta l’articolo incriminato, trovandovi sempre le stesse cose. Ora non cercavo più una plausibilità assoluta, ma piuttosto la possibilità di un’interpretazione meno stringente, magari simbolica o astratta, che in un certo qual senso riuscisse a non cozzare contro l’intero edificio della Fisica. Ma c’era poco da fare: messa di dritto o rovesciata su un fianco, l’altalena di Akundjanov continuava a violare i principi della termodinamica.

Il guaio più grosso è che l’altalena non stava in uno spazio duale, ma da qualche parte in Kazakstan. Apparteneva al nostro mondo, tanto da poter essere osservata da pastori locali. Era quindi da escludere che l’accademico parlasse di una teorica altalena che dondolava in un teorico spazio multidimensionale. No. Akundjanov credeva in quell’altalena, e credeva potesse comportarsi come gli veniva riferito.

Mi venne anche in mente che magari qualche bello spirito poteva averci nascosto un motore da qualche parte, sotto o vicino. In questo caso, certamente era possibile che il giocattolone si mettesse ad accelerare. Ma era ovviamente un’obiezione da ultima spiaggia: il professore aveva certamente fatto controllare, prima di lanciarsi nelle sue elucubrazioni.

C’era un’altra cosa che mi sarebbe piaciuto poter verificare, e non potevo. Tutto sommato, il nesso tra l’oggetto leggendario e l’altalena di Akundjanov l’avevo stabilito io. Non c’era prova dell’effettiva corrispondenza tra le due cose. Anche le concordanze geografiche tra la zona del mito, quella dei pastori e Akademgorodok, erano piuttosto labili: si trattava pur sempre di distanze di migliaia di chilometri. Chiunque avrebbe potuto raccontarmi senza possibilità di smentita che – ad esempio – l’altalena di Akundjanov era solo una copia di quella leggendaria; oppure che non era nemmeno quello: semplicemente c’erano due altalene, o dieci, o mille. E ciascuna con funzioni diverse: qualcuna per bambini, qualcun’altra no. In questo caso, il manufatto di Akundjanov poteva benissimo avere origini e caratteristiche diverse da quella del viaggiatore usbeko e delle leggende. In queste ultime si diceva che l’altalena segnava un tempo assoluto, non che avesse un comportamento strano. Per contro, le equazioni di Akundjanov descrivevano un’oscillazione peculiare, ma non dicevano nulla sulle cause della peculiarità. Poteva essere che sotto il sedere dei pastori ruggisse un bel motore “turbonucleare”, e che il fisico semplicemente ne stesse teorizzando le oscillazioni, magari per spedirli verso le stelle a costi contenuti. Solo che – ecco la contro-obiezione – i vertici sovietici difficilmente ne sarebbero stati all’oscuro, e ancora più difficilmente avrebbero lasciato le verifiche sperimentali a dei pastori.

No, la “favola dell’altalena” possedeva un misto di rusticità e sofisticatezza, empirismo e rigore scientifico che non era nelle corde né di una tradizione orale e simbolica che – tantomeno – di un esperimento militare sovietico.

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SU DI ME

SONO EDOARDO, NATO A TRIESTE NEL 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. CONTINUA...

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