Quell’estate mi rilassai in montagna, sulle rive di un lago di gran lunga più piccolo e più salubre dell’Aral. Stavo guardando le paperette e affrontando la sfida di una coppa di mirtilli con la panna, quando mi chiamò Larson. «Grosse novità» – esordì. «Ho trovato uno che conosceva Akundjanov» – proseguì. «E’ pronto a giurare che era savio di mente, almeno fino a pochi mesi dalla sua scomparsa, quando questo tizio l’ha visto l’ultima volta» – concluse. I mirtilli avevano improvvisamente perso tutto il loro sapore: la ruota si stava rimettendo in moto per un altro giro. Tenersi agli appigli.
Mi scaraventai fin quasi dentro al telefono, per strappare a Larson le risposte a quanto mi stava latrando nel cervello, in stand-by sino ad un attimo prima. Chi era questo tipo, dove aveva visto Akundjanov, perché lo conosceva, quanto lo conosceva, come faceva a dire che era normale, quanto ne sapeva dell’altalena, dove secondo lui era sparito il professore….
Le risposte vennero. L’uomo dal coniglio nel cappello era un rispettabile funzionario pubblico di Irkutzk, ora anzianotto e in pensione. Akundjanov non solo era suo quasi vicino di casa, ma entrambi erano membri del medesimo circolo di scacchi. Quindi sulla forma mentale dell’accademico di Akademgorodok poteva esprimersi con una certa cognizione di causa. No, di altalene non sapeva nulla. Sì, era disposto ad essere ulteriormente intervistato, ma a casa sua. Non voleva soldi. Aveva appreso del nostro interesse da un suo amico, appassionato di storia e geografia locale, che da anni aveva scoperto il link con l’università di Wolverhampton, che sul suo Paese sembrava saperne più degli stessi locali. All’amico – un coetaneo – sembrava di ricordare quel nome dai tempi della loro giovinezza, quando entrambi giocavano a scacchi, e il nostro uomo col cilindro gli aveva parlato in più occasioni di questo anziano professore, col qual qualche volta vinceva e qualcun’altra perdeva, ma che era comunque una persona gradevole. Ad memoriam, l’uno aveva telefonato all’altro, e questi si era messo in contatto con Larson. Così, giusto per sapere. Vedi il caso…Come ultima cosa, l’uomo di Irkutzk non aveva la più pallida idea di che fine avesse fatto il professore.
Mezz’ora dopo, un’allibita impiegata dell’unica agenzia turistica del luogo mi guardava con apprensione, nel timore di scatenare la furia di questo tipo dall’aspetto cianotico, che aveva fatto irruzione nel piccolo locale chiedendo un biglietto aereo per una località mai sentita. «Ik…coosa, mi scusi?». Il mio aspetto doveva essere veramente temibile, tanto che alla fine vinsi io, a dispetto della sua scarsa familiarità con le procedure di prenotazione multipla. Quando dal “coosa?” passò al “doove?”, capii di averla in pugno.
Avevo così imparato a sue spese che un volo per Irkutzk non si nega a nessuno. Quello che due giorni dopo imparai invece a spese mie fu che, dopo undici ore di aereo in classe turistica, ti si gonfiano i piedi.
Agli “Arrivi” dell’aeroporto, munito di regolamentare cartello di cartone con sopra il mio cognome tracciato con regolamentare pennarello nero, si palesò un omone che era l’essenza del russo ante-rivoluzione (la seconda, quella del ’90, che qualcuno ha vinto, ma i più hanno perso). Il vecchio Anatolj Kvitko era brusco e sbrigativo nei modi, ma non per questo privo di cortesia. Non girava intorno ai concetti e alle parole: era lì per me in quanto io ero venuto lì per lui, e la sua rude franchezza conteneva il sincero interesse nel dare una mano anche ad uno sconosciuto, purché interessato alla vita di Akundjanov.
Una volta fuori dal miserrimo aeroporto, mi condusse verso una Zigulì che solo a guardarla troppo intensamente si sarebbe potuta sfasciare in mezzo alla strada. Nell’osservarla (con cautela…) cercai di interpretarne il presagio: l’automobile era dell’identico giallo-tristezza della busta del mio dossier sull’altalena. Ma come sempre accade, il contenuto del messaggio era ambiguo: ne comprendevo il valore, ma non la valenza: positiva? negativa? Né Anatolj mi lasciò il tempo di interrogare ulteriormente gli oracoli: lungo la strada verso casa, mi sottopose alla solita – molto russa – raffica di domande. Naturalmente voleva sapere i perché e i percome del mio interesse, e io non ebbi difficoltà nell’accontentarlo, ancora una volta tralasciando solo i particolari della bislacca tesi sostenuta in “Velikie kacheli”.
Giungemmo in un quartiere popolare, da dove il Bajkal era solo un nome. La casa di Kvitko dimostrava che i russi che non sono o non vogliono farsi furbi hanno vita dura. Entrati, mi fece accomodare su di un divanetto coi braccioli di legno chiaro che non era mai stato giovane, e senza una parola andò a preparare il the.