Intellettuali (1)

I

Molti mi chiedono perché ce l’ho – o sembro avercela – con gli intellettuali.

Dopo essermi spiegato, di solito il dibattito trasla verso le possibili diverse interpretazioni di cosa ciascuno di noi intende con il termine. Mediando progressivamente tra la mia personale idea e quanto invece intendono gli altri, sto venendo progressivamente a scoprire che forse non li odio, o magari li amo, o ancora mi sono del tutto indifferenti. Non so.

Quindi forse dovrei prima illustrare come mi immagino un intellettuale – e anche, perché no?, un’intellettuale. Ma non sono ancora pronto a descrivere un’intellettuale, perché entrano in gioco troppe variabili. Facciamo un’altra volta, daccordo? Ma un intellettuale me lo immagino benissimo. Ne ho visti tanti, in vita mia, e mi sono formato la mia idea su quelli che ho visto.

Non ce n’è uno che sfugga alla meravigliosa descrizione di Bellow: “In ogni intellettuale, da qualche parte, c’è sotto una stronza testa di cazzo qualsiasi” (Herzog). Teste di cazzo lo siamo un po’ (quasi) tutti. Quel che mi fa impazzire di libidine nella frase di Bellow è la sottigliezza del qualsiasi. Gli intellettuali sono persone qualsiasi, mascherate in modo diverso e atteggiate a guisa loro. Il problema è che non accettano di essere qualsiasi. Sono qualcosa di speciale: non solo lo credono, ma impongono questa credenza.

Che fanno nella vita, gli intellettuali? Dipende. Temo fortemente che quello che hanno fatto nel passato (professione, mestiere, nullafacenza) resti assorbito dalla loro immagine attuale. C’è quindi un percorso – anzi, infiniti – che porta a essere un intellettuale. Chi era filosofo (che sarebbe poi, un filosofo? ma ammettiamo), chi maestro elementare, chi giornalista, chi guardasigilli del Regno. Tutto ciò non rileva: è soltanto la strada che li ha portati a essere quel che sono. Il corollario alla loro “carriera” prevede che molto frequentemente i colleghi o ex di lavoro li prendano a pesci in faccia, come è giusto che sia: essi non possono cioè permettersi di tenere atteggiamenti intellettuali nell’ambiente che li ha visti lavorare, sbagliare, ruttare e guardare il culo delle segretarie. Dove esercita il proprio ruolo, un intellettuale? Tranne che nel posto che gli da(va) la pagnotta, ovunque.

La cosa comporta un minimo di schizofrenia: nel 99.9% dei casi l’intellettuale fa di tutto per essere riconosciuto come tale, anche se ormai il suo rituale è così automatico che nemmeno ne è cosciente. Ci aggiungo anche che, tranne rarissime eccezioni, egli non potrebbe simulare alcun altro ruolo, in quanto gli manca il phisique du role per atteggiarsi – che so – a samurai o pescatore di tonni.

Qualche sottile analista della mente umana obietta che probabilmente io ce l’ho con gli intellettuali perché vorrei essere uno di loro e non ci riesco. Forse. Trent’anni fa. Forse. Ma mi viene in mente che trentanni fa avevo altro cui pensare, che agli intellettuali. La spiegazione psic-qualcosa zoppica.

Qualcuno altro, meno avvertito, a volte dice che IO sarei (almeno nella sua visione) un intellettuale. Da quando ho visto Blade 2 (con Wesley Snipes) quest’interpretazione non suscita più la mia ira funesta, ma mi provoca invece un impercettibile sorriso. In effetti potrei prendermi il patentino di cacciatore di intellettuali e scatenare la mia parte non-intellettuale contro gli embrionali aspetti non-intellettuali dei miei mortali nemici. Purtoppo esiste un Codice Penale a frenarmi, cosa di cui Snipes non sembra doversi preoccupare nel suo ruolo cinematografico di ex-vampiro cacciatore di vampiri.

Devo pazientare.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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