Induzione marziale

I

Il metodo induttivo consiste nel ricavare regole generali a partire dall’osservazione di fenomeni specifici, mentre quello deduttivo nel prevedere tutti i comportamenti ammessi derivanti da un insieme di regole/leggi note. La Matematica è totalmente deduttiva, perché parte da assiomi, mentre le scienze originano da intuizioni induttive (Newton e la gravità a partire dalla mela; Einstein e la Relatività dall’esperimento di Michelson e Morley; Planck e la meccanica quantistica dalla radiazione di corpo nero e dall’interferenza ottica).
Un’analisi deduttiva richiede solo logica, una induttiva esige molto di più: intuitività, creatività, fantasia. Per questo è immensamente più difficile e tutt’altro che alla portata di tutti.
Il percorso logico completo è induzione -> regole -> deduzioni. Queste ultime sono – spesso – la ricaduta pratica e applicativa della teoria sistematizzata.

Quando una teoria completa e testata viene trasmessa/insegnata, è abbastanza sensato adottare un approccio deduttivo: è più facile e diretto. Ma è bene non esagerare. Il principale difetto di quest’impostazione è infatti di creare una progressiva separazione tra il significato della summa teorica – che è il prodotto di una ricerca induttiva, “viva” – e le deduzioni, che rischiano di essere vissute acriticamente, come semplicemente ovvie. Si perde cioè il senso della necessità pratica della teoria, conservando solo quello della necessità logica delle conseguenze. Detto banalmente, si impara come muoversi, ma non si sa perché.

Ora veniamo a noi. Tenuto presente quanto appena detto, notiamo che le arti marziali in genere vengono insegnate secondo un’impostazione quasi totalmente deduttiva. Si parte – nel migliore dei casi – da principii, ma molto più spesso da semplici tecniche, raggruppate secondo lo scopo o l’arto/i di impiego. Queste vengono illustrate, ma non spiegate nel loro perché. Perché ogni am tira i pugni a modo suo? Tutto è calato dall’alto: “si fa così” (Schola statuit, Magister dixit). L’allievo, anche se fisicamente dotato, viene ricondotto allo stato di infante imbelle, perché non ha familiarità con quei particolari movimenti. Può capirne le ragioni di massima (un pugno è un pugno, un calcio un calcio), ma non quelle della specificità tecnica di quel gesto al posto di un altro. Se è bravo impara in fretta, ma intanto le sue capacità naturali-istintive vengono “congelate” per tutto il tempo in cui vengono re-indirizzate. Se al grezzo aveva una capacità di offesa/difesa pari a 50, all’inizio del percorso marziale essa si riduce drasticamente: 10, 20, non di più, in attesa che l’arte lo riporti al 50 iniziale e poi più su.

In realtà, l’origine di ogni am è precisamente induttiva, e in tale modo viene progressivamente codificata. Un’am che nasca da assiomi non ha senso, a meno che non si voglia credere alla favola di Bodhidharma. Naturalmente un’am non è una scienza, per cui la scoperta di regole a partire dall’osservazione pratica non è oggettiva, ma parte da un modo soggettivo di muoversi. C’è già a monte – a differenza che in una scienza naturale – un obiettivo del movimento. Le regole si costruiscono cercando efficienza ed efficacia in tale movimento, rispetto allo scopo (difesa/offesa).

Una volta che sia stata codificata, come si diceva è indubbiamente più pratico, oltreché più efficiente, trasmetterla deduttivamente. E qui siamo al punto cruciale: Chi la insegna? Se la insegna chi l’ha solo imparata in base al percorso deduttivo, egli non potrà che trasmetterla con lo stesso bias di cui abbiamo già parlato. Se invece la trasmette un caposcuola, cioè chi l’ha creata, la faccenda è totalmente diversa. Per lui infatti le regole sono qualcosa di vivo, nate dall’esigenza di difesa-attacco, non un mero insieme di assiomi.

Beninteso, anche un semplice istruttore può riuscire ad insegnare l’arte “vera”, ma tutto sta a vedere se l’ha veramente capita.
Già quando alle cinture nere di prima nomina viene detto «adesso devi metterci del tuo», si intende proprio questo: rielabora ciò che hai imparato, secondo quello che hai capito.

Io penso che un insegnamento marziale potrebbe avvalersi utilmente di una logica induttiva – indubbiamente più impegnativa di una deduttivo/passiva – per far ragionare l’allievo sulla propria efficienza. Ottenuta così la sua attenzione, l’insegnante lo aiuta dandogli delle regole, chiaramente deduttivo/assiomatiche (il “si fa così”), che però – se pur cadono dall’alto – lo fanno scendendo su una situazione concreta. Si offre così il supporto logico perché l’allievo trovi preferibile muoversi in uno modo piuttosto che in un altro. Insomma, gli si da’ un riferimento non astratto, ma legato alla sua esperienza.
Perché il rischio maggiore di un approccio esclusivamente deduttivo è quello di soffermarsi sui particolari, sulla grammatica, facendo dimenticare l’obiettivo generale, che non è pronunciare correttamente una singola parola, bensì farsi capire con un discorso. Fuori metafora, vedo troppi gradi tecnici attenti alla correttezza del gesto, dimentichi che sono entrati in palestra per imparare a menare e a difendersi. Per questo insisto sempre sulla necessità che ogni tanto i maestri mostrino “lo stato dell’arte”, cioè la loro interpretazione pratica (deduttiva) della loro esperienza induttiva.
Ad ogni modo, credo che la scuola della strada sia insostituibile. Solo chi ha imparato a menare perché è stato costretto dagli eventi può conservare quella capacità critica naturale che a ogni passo gli fa chiedere: ma quello che sto facendo serve veramente? come lo posso migliorare? Gli altri saranno sempre al massimo degli scrupolosi studiosi.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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