Il Bowie che non t’aspetti

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[vc_row css_animation=”” row_type=”row” use_row_as_full_screen_section=”no” type=”full_width” angled_section=”no” text_align=”left” background_image_as_pattern=”without_pattern”][vc_column][vc_column_text]I documentari sui cantanti più celebri e celebrati di solito sono impostati su tre step: 1) il Nostro, forte di una volontà incrollabile e della grande fiducia sulla validità del proprio messaggio artistico, combatte contro il Nemico per vedere riconosciuto il proprio universale valore; 2) ci riesce; 3) divenuto icona mondiale, a) sparisce, b) muore, c) si trasmuta in guru intoccabile.
David Bowie – che ho amato – non è stato sottratto a questo percorso agiografico.
Però recentemente ho visto un documentario un po’ diverso, che raccontava una storia un po’ diversa. Detto documentario, impostato sul Bowie dalle origini a Ziggy Stardust, metteva in luce come unico motore del suo agitarsi sulla scena fino alla consacrazione come Ziggy il disperatissimo desiderio di successo a tutti i costi dell’uomo di Brixton. Nessuna folgorazione, nessuna urgenza espressiva, nessuna visione oltre l’orizzonte, bensì la spasmodica ricerca di una qualsivoglia strada che gli potesse procurare fama e soldi. Certo, è una sola campana, ma è interessante sia così diversa da quelle che si sentono di solito. Lo speciale esamina con cura e con numerose pezze d’appoggio i rapporti di Mr Jones e una serie di personaggi: Andy Warhol, Lou Reed, Iggy Pop, Marc Bolan, Mick Ronson, Angela “Angie” Barnett, considerando allo stesso tempo l’evoluzione del suo stile. Bowie partiva da un assai poco interessante folk-rock che produceva dimenticabili canzoncine infantili (The Laughing Gnome, Little Bombardier…) e – suggerisce il documentario – se questo gli avesse portato gloria e denaro, si sarebbe fermato lì. Invece, visto che nessuno se lo filava, cominciò a guardarsi in giro tra Londra e New York, e più in particolare tra la Factory di Warhol per l’immagine, i testi dei Velvet per l’ispirazione, lo stile di Pop e di Bolan per il palcoscenico. Due colpi di fortuna lo baciarono: l’uscita nel ’69 del singolo Space Oddity in contemporanea con la missione dell’Apollo 11 e l’incontro con Mick Ronson, chitarrista tanto dotato quanto poco interessato a diventare una star indipendente. Alquanto spietatamente, il documentario racconta come Bowie si presentasse ai primi concerti da solo e con la chitarra acustica e fosse in grado di accontentare il pubblico con la sola Space Oddity, per il resto del repertorio snobbato e deriso. La sua abilità da camaleonte gli fece capire che per sfondare gli serviva ben altro che lo strano assortimento di canzoni del 33″ Space Oddity, e fu allora che “rubò” il rubabile da Bolan e trovò Ronson. I due album “pre-Ziggy”, The Man Who Sold The World (1970-71) e Hunky Dory (1971), benché ancora privi di una vera omogeneità, musicalmente erano già su un altro pianeta, e il merito era più di Ronson che di Bowie stesso, descritto come “apatico” durante la registrazione del primo. Bowie divenne Bowie non prima di The Rise And Fall..., nel ’72, quando prese possesso e piena titolarità del personaggio.

In sintesi, lo speciale ha il merito di spostare un po’ di punti di equilibrio rispetto all’idea di un artista dalla volontà e visione ferree, sicuro di sé e di quel che voleva trasmettere. In particolare, mostra la crucialità dei ruoli della moglie Angie e di Ronson, la prima come promoter e il secondo come “zoccolo duro” musicale e tecnico-virtuosistico. Il quadro che ne emerge smitizza considerevolmente Bowie, almeno nella sua iconografia di alieno caduto sulla Terra. E va bene così, anche per me.[/vc_column_text][vc_video link=”https://youtu.be/g33-W9t2q2Q” title=”The man who “stole“ the world”][/vc_column][/vc_row]

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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