È uscito da poco il film di fantascienza In Time. L’idea è abbastanza originale: il tempo della via umana si compra, altrimenti a 26 anni si muore. Disponendone, invece, si rimane uguali a come si era a 25 anni. Il tempo, misurato in secondi su un display sottopelle, è diventato perciò la moneta, il numerario. Come per i soldi attuali, è oggetto di contrattazioni, mutui, rapine, scommesse. C’è chi ne ha molto e chi poco. Esistono le banche del tempo, i cui dirigenti dispongono praticamente di una vita (teorica) lunghissima, fino a milioni di anni. Quindi la società è divisa in classi, tra chi ha molto tempo e chi poco e passare da un settore a un altro è operazione teoricamente possibile, ma molto costosa.
L’aspetto più interessante del film – a mio avviso – è la metafora di una società “a somma zero”. Lo trovo interessante perché è esattamente quello che sta succedendo nel mondo vero. È di questi anni la sostituzione del concetto di crescita globale con quello di mors tua vita mea, come nel vecchio principio mercantilista delle grandi economie europee del ‘300-‘400: Francia, Spagna, Portogallo. Ipotizza che le dimensioni della “torta” (la ricchezza) siano date, per cui non ci sia altro da fare che impossessarsene con ogni mezzo.
L’arricchimento piratesco delle banche commerciali a spese dei risparmiatori, con totale estromissione del denaro destinato a investimenti produttivi, ne è un esempio. La lotta di valute tra dollaro ed euro, pena il crollo dei rispettivi sistemi economici, sono un secondo esempio. Le politiche commerciali (beni e servizi) intra ed extra-europee, aggressive ai limiti della dichiarazione di guerra, sono il terzo esempio.
La società, tra speculatori e chi gode di posizioni di privilegio da una parte e consumatori strozzati nel loro potere d’acquisto (tasse, prelievi una tantum, vincoli ai prelievi bancari, inflazione, strozzature nel mercato del lavoro) dall’altra, si sta configurando sempre più con una netta distinzione tra centro e periferia.
Dov’è la crescita? Sostenibile, poi? Il termine non è più di moda. È sotto gli occhi di tutti l’idea dell’arraffa-arraffa, favorito dall’assenza di ogni progetto di welfare. Il “positivismo economico” è giunto al termine, ammesso che esistesse al di fuori del marketing di cui è stato oggetto dalla fine della seconda guerra mondiale. Piano piano – sempre troppo piano – si comincia a leggere dei possibili intrecci di interesse dei cosiddetti poteri forti, cioè dei pochi che da sempre hanno avuto il vantaggio principale: quello dell’informazione. Informazione non solo passiva, sulle notizie, bensì attiva, sui meccanismi di funzionamento.
In “In Time” c’è anche questo: il vagare a casaccio, prigionieri di logiche di sopravvivenza e sopraffazione piccole e locali (le file per i “prestiti di tempo” nelle sgangherate agenzie di periferia delle banche; i rapinatori di tempo) degli abitanti dei ghetti e, dall’altra parte, la pianificazione a livello mondiale dei flussi di tempo, su mappe elettroniche grandi come schermi cinematografici o come al Norad.
Un film metaforico, si diceva. Il timore è proprio che metaforico non lo sia affatto.