Con quella voce da checca e quei modi affettati, Gianni Clerici non mi era simpatico. Negli anni ’70 e ’80 seguivo il tennis, e trovarmi i suoi resoconti sulle pagine sportive di Repubblica mi pareva uno spreco di spazio sul giornale: lasciatelo a chi racconta lo svolgimento delle partite, non a chi parla degli affari suoi. Però, per un motivo o per l’altro, non riuscivo a non leggerlo. Finché capii.
Clerici non riportava quello che qualunque cronista munito di segnapunti potrebbe riportare. Lui parlava dell’intorno, del “dietro le quinte”, dell’atmosfera. E ti faceva sentire lì, presente com’era presente lui, fosse Wimbledon o il Roland Garros. Narrava di conoscenze, intrighi, amicizie e segreti, dei cappelli delle signore e degli sguardi degli uomini, di invidie e promesse, di tradizioni e innovazioni. Di gioco, di stile, di sentimenti… di tutto quanto girasse intorno al rettangolo con la rete. Di un mondo. Che conosceva bene, anzi benissimo, con la curiosità un po’ benevola e un po’ distaccata di chi di quel mondo ha fatto parte, per poi lasciarlo senza rancore.
La sua misura, la sua eleganza nel riportare anche scandali o episodi incresciosi, era di un livello completamente diverso dal sarcasmo cinico ed etilico di un Brera, Gianni anche lui. Clerici usava il fioretto per descrivere, mai la spada per ferire. E la sua competenza “di colore” si sposava perfettamente con quella tecnico-statistica di Rino Tommasi, a suo modo grande anche lui.
Clerici non era un giornalista, ma uno scrittore-tennista prestato alla carta stampata.
Ecco perché mi manca e la notizia della sua dipartita è danno, grande.