Continuità di movimento nel Wing Chun

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Nel Wing Txun (che sarebbe il Wing Chun a forte valenza paranoide che faccio io) l’allenamento tecnico dei singoli concetti e princìpi tende a frammentare il movimento in micro sezioni. Anche un’azione “complessa”, composta cioè di 4-5 successivi passaggi logico-motori (es: 1) levarsi di torno, 2) aprire, 3) sentire la direzione della forza dell’avversario, 4) finalizzare con un attacco) è comunque contraddistinta didatticamente da un inizio e una fine. L’idea di iniziare&finire l’azione aiuta il praticante a isolare l’oggetto del particolare allenamento, a memorizzare quella che potremmo chiamare, con gergo cinematografico, un’inquadratura. E, ancora meglio, a ricostruirla logicamente nelle sue micro componenti, ognuna delle quali contiene l’insegnamento tecnico di dettaglio.

 

A ben vedere, quindi, anche l’azione complessa ha una sua continuità interna. Capita molto sovente che il praticante “si pianti” al termine di un’azione: in genere è perché sta verificando l’equilibrio della sua postura ed è abituato a considerare “finito il compito” perché l’orizzonte d’attività con cui è abituato a parametrarsi è quello.

 

A questo punto, giunge la ben nota osservazione che noi siamo quello che alleniamo. Se ci alleniamo “per azioni” siamo abituati a fermarci al termine di ciascuna di esse.

 

Questo però è in contraddizione con la strategia generale di movimento che, per esemplificare, somiglia invece a una danza continua in equilibrio (dinamico): la strategia generale del Wing Txun prevede una continuità di ben altra ampiezza.

 

 

Io sono particolarmente sfortunato, provenendo dal Karate in cui vige il princìpio dell’ ikken issatzu (uccidere con un colpo solo). Le tecniche di karate hanno un inizio e una fine ben precisi, tant’è che nel combattimento sportivo si vedono proprio i karateka fermarsi dopo una tecnica che pensano gli abbia dato un punto (il che non succede nella kick boxing, nella lotta, nel judo, nel pugilato…). Mi rendo conto che il mio inprinting, del quale probabilmente non mi libererò mai del tutto, continua a influenzare negativamente la mia continuità. Ma vedo che il medesimo problema accomuna un gran numero di miei colleghi.

 

Per mia fortuna, invece, il mio Maestro ogni tanto e il mio Istruttore ogni spesso mi testimoniano de visu come le cose andrebbero fatte: una volta che ti sei mosso, non ti fermi più. Lo riscrivo, perché è importante: non-ti-fermi-più. In altri termini, ogni azione non si conclude, ma è preliminare all’azione successiva nella continuità di movimento e nel mutamento di obiettivi.

 

 

Giunto a un certo punto del mio percorso tecnico, mi è stato detto: “Adesso comincia a metterci del tuo”. E io ho deciso che la prima cosa del mio che devo provare a mettere è la continuità. Ho scoperto che per essere continuo è bene che lasci campo libero alla mia aggressività naturale. Ci sto lavorando, non perché mi riesca difficile essere aggressivo, ma perché nell’esserlo rischio di dimenticarmi la tecnica.

 

Mi aiuto con l’idea di seguire una musica, che non suona tanto nelle mie orecchie quanto nel mio corpo: è una musica di movimento. Non si interrompe finché l’avversario non è a terra (o ci sono finito io) o ci si allontana a distanza di sicurezza (ma in questo caso la musica semplicemente ricomincia da capo).

 

La musica non basta di per sé stessa, perché di suo non ha uno scopo. Serve un obiettivo, che può essere intermedio (toccare, aprire…) o finale (colpire). L’obiettivo richiama il concetto di aggressività (muoversi per vincere, non per muoversi e basta) e quello di lucidità. Non solo quella parte di lucidità che riguarda il giusto modo di gestire il corpo, ma anche quella che indirizza l’azione all’obiettivo.

 

Se prendiamo come riferimento costante l’obiettivo finale (terminare il combattimento) e ci imponiamo di non fermare il movimento corporeo fino ad averlo ottenuto, otterremo continuità. Questa non è sempre un’imposizione resa necessaria dalla posizione dei contendenti nel combatimento, ma è un auto-condizionamento che serve a muoversi in modo strategico. Se al movimento serve “la carota” (l’obiettivo), l’aggressività lucida ce lo fa perseguire. Un movimento continuo e aggressivo richiede automaticamente un’appropriata respirazione, se no si finisce rapidamente la benzina.

 

 

Come allenare tutto ciò?

 

1. Imporsi il movimento continuo. Dopo un po’ di pratica, i movimenti supeflui o poco efficienti dettati dall’auto-imposizione di fare comunque qualcosa, lasceranno il posto a quelli più diretti e finalizzati.

 

2. Finalizzare ogni movimento all’obiettivo finale e a quelli intermedi. Da qualche parte, nella nostra mente, deve risiedere costantemente la volontà di stare facendo qualcosa di risolutivo. In altre parole, gli obiettivi intermedi devono venir percepiti proprio solo come tali, come semplici step.

 

3. Lasciare da qualche parte del cervello un po’ di spazio per il monitoraggio della respirazione.

 

 

Mi rendo benissimo conto di aver detto delle banalità assolute. Non le avrei scritte, se l’osservazione di me stesso e di molti miei colleghi non rendesse evidente che, per quanto banali, nella maggior parte dei casi non riusciamo a farle.

 

Il motivo per cui non si riesce a fare cose apparentemente banalissime sta – credo – nel metodo di allenamento “frammentario” di cui parlavo all’inizio, per cui il nostro processo di apprendimento non spazia oltre la singola azione (semplice o complessa), eseguita la quale “ci spegniamo”. Quasi sempre la singola azione non ha un obiettivo finale, quasi sempre è così breve da non richiedere attenzione per la respirazione. Per questo – credo – i gradi allievi dei praticanti hanno una così netta propensione “a piantarsi” e il loro modo di combattere somiglia a una successione di scatti. Ma anche molti praticanti di grado tecnico (qualcosa di simile alla cintura nera) sembrano non essersi affatto liberati del vizio originale. Il primo passo consiste nel rendersene conto.

 

6 comments

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  • E’ un problema che supero quando il kumitè non è sportivo, cioè non finalizzato al punto.
    Tieni conto che normalmente le palestre di arti marziali hanno indirizzo appunto sportivo, ludico e non propriamente di difesa, men che meno di offesa, voglio sperare, personale.
    La pratica di combattimento è finalizzata a produrre un simulacro di colpo efficace.
    Atteggiamenti simili si hanno anche nella scherma dove l’incrocio dei ferri non ha niente a che vedere con le scene di combattimento viste al cinema con Errol Flynn o Antonio Banderas dove i duellanti si rincorrono su e giù per scale, sopra tavole imbandite o aggrappati ai lampadari.
    Peraltro, ho notato curiosamente che l’arma non è altro che il prolungamento del braccio e che le tecniche fondamentali di difesa sono sovrapponibili a quelle del Karate e, suppongo, anche delle altre A.M.
    E’ un attimo, e tutto è finito in attesa della decisione arbitrale.
    La non interruzione dell’azione è più facilmente praticabile quando il combattimento non ha come scopo il wazari o l’ippon, almeno per quanto mi riguarda.
    L’unica attenzione che si deve avere è di non tramutarlo in rissa da strada.
    Comunque l’interruzione dell’azione è una tendenza sentita da molti maestri che invitano appunto a correggere il difetto.
    Tuttavia gli stessi hanno notevoli remore a “lasciare correre” il kumite per paura che i praticanti si facciano male. Anche quando questo avvenga, è comunque difficile valutare l’efficacia del combattimento perchè non hai gran elementi oggettivi per farlo tipo avversario con faccia da panda o dentatura a elementi alterni (per fortuna!).

  • Il commento precedente è stato offerto da un III dan di Karate.

    Caro Maurizio, ho sempre associato anch’io il kumite al fioretto e anche il kiai vi somiglia.

    Il mio articolo questa volta è un po’ “inter nos”, perché so già che verrà ripreso e pubblicato su uno dei nostri siti (di Wing Txun, intendo) e ha prevalentemente a che fare con i condizionamenti mentali dell’allenamento.

    Io, nel karate, essendomi fermato al I dan, non ho mai fatto in tempo a pormi sufficienti domande su quel che stavo facendo e come mi stavo allenando. Ma una cosa ai miei tempi era sicura: capitava più spesso che no che qualcuno di noi tornasse a casa con qualche bozzo. Però va detto che il kumite, dopo i primi secondi, cominciava a somigliare a una rissa tra polli.

  • Anche io una volta tornavo spesso un po’ pesto e contento, adesso se qualcuno si rompe un’unghia c’è il rischio di una causa fantastiliardaria.
    Tornando alla scherma la posizione di guardia corrisponde al kokutzudachi, l’affondo a zenkutzudachi con piedi in linea. Curiose analogie tra discipline distanti migliaia di kilometri.

  • Ecco.
    Una cosa del karate che non ho mai capito (e forse me la puoi spiegare tu) è perché alcune tecniche di braccia siano associate a specifiche posizioni di gambe. Ad esempio, non ho mai visto uno shuto uke in zenkutzu dachi. Viceversa, mai visto un gedan barai in kokutzu dachi. Invece li ho visti entrambi (nei kata) in kiba dachi, che è una posizione ergonomicamente perfetta per prendersi un calcio nelle palle. Che Nakayama avesse le palle altrove?

  • Una delle ragioni per cui abbandonai il judo fu proprio la mia incompatibilità con il kumitè.
    Nella palestra che all’epoca frequentavo, le lezioni di preparazione agonistica per le competizioni regionali e nazionali prevalevano su quelle di pura tecnica dell’arte della cedevolezza. E a me non andava di infoltire la schiera di oranghi strascicanti che si vedono “ingrumarsi” in tutte le gare di judo.
    A quei tempi non esisteva ancora la disciplina agonistica di kata (di cui è uno specialista blasonatissimo il nostro amico Claudio), per cui desistetti.
    Se potessi ricominciare, credo sceglierei l’Aikido, arte marziale priva di connotati agonistici, che ben coniuga l’armonia e la continuità del movimento, come da te doviziosamente illustrate.

  • Boh, suppongo che shuto uke in zenkutzudachi sia, per un giapa, come per noi accompagnare un branzino con la coca cola, o presentarsi al ballo delle debuttanti in bermuda e ciabattine infradito.
    Perché scusa, la funzione di sanchin dachi, a parte quella di dare un’ottima rappresentazione di una sindrome spastica (grave), qual’è?
    Si segue una tradizione e forzatamente ci si impone una spiegazione finto fisiologico/razionale. Far notare che è possibile confutare il significato comunemente attribuitonino a queste tecniche è come spiegare le basi chimico-fisiche del miracolo di S.Gennaro a una platea di fedeli napoletani.

SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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