Ogni tanto mi ricapita di sentire su qualche radio privata questo brano dell’Equipe84, datato Un disco per l’estate 1971. Ovvio che c’ero, e mi piacque subito. Speravo vincesse, invece la palma spettò all’ineffabile Mino Reitano. Potrei parlare a lungo di quell’edizione del Disco, ma il discorso si farebbe lunghissimo e articolato: per adesso lasciamo stare.
Invece parliamo di Casa mia e del perché me la ricordo così bene e volentieri. Sono tre strofe e tre ritornelli (diversi), semplici ma non banali. Wikipedia dice che “riscosse un buon successo”, ma è una balla colossale. Si dà il caso che un mese dopo il Disco facessi un giro in Cermania con la famiglia (a vedere Albrecht Durer a Norimberga, più i lavori per le Olimpiadi ’72 a Monaco… che culturosi eravamo, eh?). Ebbene, sulle radio krukke non si sentiva altro, grazie agli emigrati italiani che lavoravano lì. Casa mia venne eletta a inno dei non pochi compatrioti che facevano i camerieri, i pizzaioli, gli operai in terra teteska.
Non so fino a che punto l’intento dell’Equipe e degli autori del brano (Albertelli e Soffici) fosse stato questo, fatto sta che ci avevano beccato in pieno. Il testo è semplice e racconta con poche pennellate il ritorno a casa di un emigrante, che prestissimo deve ripartire. In tre minuti, la canzone riesce a dire tutto quello che conta, assumendo il punto di vista del protagonista. Un lavoro di sintesi spettacolare: non c’è una parola di troppo né una troppo poco. E non si parla solo di fatti, ma soprattutto di sentimenti ed emozioni, senza una melensaggine che sia una. Secca, diretta, anche cruda ma mai disturbante.
A completare il quadro, la voce perennemente fuori tempo di Vandelli e il tocco “progressive” (Jethro Tull?) del fraseggio del flauto rendono Casa mia quello che è: un inatteso piccolo capolavoro.