Springsteen a Roma

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Mi è stato chiesto un giudizio sul concerto di Bruce Springsteen. Un baldo giovine (finalmente ho conosciuto anche Stefano) voleva un bianco/nero: o SI o NO, che per me è la cosa più difficile, per non dire impossibile.

Proviamo a ragionare sulle cose, con metodo, in modo che il discorso – non i suoi risultati, che sono e rimarranno sempre soggettivi – sia trasferibile.

La Musica è uno degli aspetti della vita più difficili da valutare, perché ha a che fare con la nostra sensibilità più istintiva, che varia col tempo, e non dipende solo dalle note bensì anche dalla nostra storia personale. Quindi liberiamoci subito dei fatti oggettivi: Springsteen a 73 anni ha un’energia fisica e mentale stupefacente. Aggiunta al mestiere, produce un risultato più che dignitoso, senza cali di tensione e pause: il concerto è coerente e non ha bisogno di effetti speciali. Del resto, non è che da un’icona del Rock ci si aspettasse di meno.

Sul palco stazionano costantemente 17 persone e la scaletta cerca di valorizzarle tutte, anche se si tratta di un’impresa non facile (qualcuno rimane per forza sotto-utilizzato rispetto alla sua professionalità).

La E-Street Band. Il tempo passa per tutti, ma soprattutto per van Zandt e Lofgren (ma è un nano!) che gareggiano in chi sembra più vecchia checca. Tallent e Bittan si conservano meglio, Weinberg è sontuoso nella sua eleganza (di aspetto e di modi – è quello che mi è piaciuto di più come personaggio). Il figlio di Clemons ricopre senza infamia il suo ruolo, anche se ovviamente non può in alcun modo replicare la presenza del padre.

Springsteen si conserva benissimo e tiene le fila di tutto e di tutti. Ogni tanto stecca, ma a 73 anni è perdonabilissimo. L’importante è che in certi passaggi clou la sua voce tenga, e lo fa.

E ora veniamo agli aspetti soggettivi, quelli che legano individualmente ciascuno di noi all’artista. Quindi servono delle premesse personali: nel 1975, Springsteen mi fulminò con Born To Run (non sono il solo, mi risulta). Fu un’esperienza sconvolgente, perché toccava mie corde intime. Benché la realtà immaginata nell’album fosse molto diversa dalla mia, riuscii a trasferirne la poesia in ciò che mi circondava. Thunder Road, Backstreets, Born To Run. Poesia dolente in un rock melodicamente perfetto e pieno di energia. Darkness on the Edge of Town era una copia imperfetta di BTR, ma ancora più che accettabile. Anche The River. All’indietro, The Wild e Greetings from mostravano ciò che in BTR avrebbe assunto una forma più compiuta. Poi non mi è piaciuto più, e Born in the USA lo trovo meno che mediocre. Quindi per me Springsteen sta tutto in quei 5 album: il resto non mi interessa. Di conseguenza, il mio giudizio sul concerto parte da qui.

… e diciamo subito che la seconda parte mi è piaciuta più della prima, soprattutto per l’interpretazione di pezzi che di per sé non mi sono mai interessati. 10th Avenue Freeze-out e Kitty’s Back li ho trovati spontanei, ben personalizzati, “autentici”. Anche l’azzardo di Nightshift (Springsteen non ha né la voce né il background culturale per un brano simile) aveva un che di rustico e amatoriale da risultare credibile, come i karaoke alle feste: non sei i Commodores, ma lo sai e non pretendi di esserlo, e va bene così.

Discorso opposto per Backstreets e Thunder Road. A mio parere, non puoi usarli come passerella per il pubblico. È vero che le hai cantate così tante volte da rendere difficile una nuova interpretazione, ma la tua poesia stava in brani come questi: perché nella prima è sparito il significato e la seconda la fai cantare al pubblico? Io ho sentito una long version di Backstreets il cui finale ripeteva “… and you lied”, segno che di Terry non è vero che “it don’t matter to me now”: che fine ha fatto? A volte, fare l’occhiolino o voler “essere amico” toglie ai brani quella sfumatura che li rendeva unici.

Born In The USA sono quasi riuscito a non sentirla, all’attacco di Born To Run ero sinceramente preoccupato. Invece è andata bene. In quel momento ho pensato che una volta nella vita si possono anche pagare 150 euro per sentire una sola canzone cantata dal vivo da chi l’ha scritta. E – in tutta sincerità – ero contento ci fosse anche Cristina (che saltava come un’indemoniata, e mi faceva sorridere dentro). Cristina, sei nata per correre? Allora corri, su! [bacino].

Una parola sul pubblico. 60.000 persone, e sono sicuro che ad aver sentito un disco di Springsteen ero tra i primi 1.000, o forse 500 (merito di un mio compagno del liceo). Poi ho abbandonato la strada, cosa che con tutta evidenza gli altri 59.999 non hanno fatto. Non erano lì solo per le canzoni, ma anche per qualcos’altro nel cui merito non voglio entrare, perché le scelte vanno rispettate. Così, oltre che al concerto, ho assistito anche a un fenomeno sociale.

Mi domando se 40 anni fa avrei alzato le braccia al cielo, cantato e saltato come facevano tutti intorno a me. Non potrei dire, ma sospetto di no. Perché 48 anni fa ero rimasto paralizzato dall’incanto, ed è questa l’emozione cui ieri ho voluto rendere il mio modesto omaggio.

Per questo, alla domanda SI o NO rispondo di SI, ma non ho idea se il mio perché sia quello degli altri. Un altro cantava I did it my way. Ecco: messa così, il mio SI è sincero.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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