L’Altalena (cap.3 -2)

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Così quella sera Larson e io ci sedemmo a un tavolo, per fare il punto della situazione. Nessuno dei protagonisti della storia aveva mai visto l’altalena, ma un professore di Akademgorodok era disposto a pagare dei pastori perché gli descrivessero come funzionava (stando al suo articolo, naturalmente). Non si sapeva se i pastori l’avessero vista: più probabilmente prendevano in giro (e prendevano i soldi di) Akundjanov per raccontargli quello che lui voleva sentirsi dire. Forse la prima volta uno dei pastori lo aveva incontrato per caso, gli aveva raccontato la leggenda dell’altalena, lo aveva interessato e poi ne aveva approfittato, assieme ai suoi amici, per aggiungere qualche pecora in più al proprio recinto. Questa era senz’altro la spiegazione più plausibile, anche tenuto conto che ad Akademgorodok l’accademico aveva ben poco da fare nel molto tempo libero, e quindi era facile preda di sogni e invenzioni.

Ci guardammo in faccia, Larson e io: la nostra stessa interpretazione, pur plausibile, non ci convinceva. Il punto debole della ricostruzione era proprio il comportamento dei pastori e del professore. Quanto volevano essere pagati, quelli, per sobbarcarsi ogni volta 1500 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno? E perché un professore russo, per quanto rincitrullito, doveva rischiare e anzi oltrepassare il confine del ridicolo, scrivendo un articolo da manicomio? Ci dovevano per forza essere altri elementi, a noi sconosciuti, a fondamento dei comportamenti degli uni e dell’altro. Ovviamente il più facile da immaginare era l’effettiva esistenza di un’altalena, più o meno grande, più o meno potente e straordinaria, di cui fosse stata fornita ad Akundjanov una qualche prova.

Lo stesso giornalista-viaggiatore, a ben ripensarci, aveva raccontato la sua storia in un modo così positivo e cattedratico da far ritenere che la sua fonte usbeka gli avesse trasmesso, con la forza della propria narrazione, un certo senso di verità, o almeno di verosimiglianza. Se un mito stava morendo o era già morto, trent’anni prima era ancora abbastanza forte da convincere un luminare di Akademgorodok.

A questo punto mi venne un’altra idea: cercare di verificare in qualche modo quanto fosse solida la salute mentale di Akundjanov. Certo una risposta in merito non avrebbe centrato il cuore del problema, ma la mia idea era che, se avessi trovato prova della sua conclamata follia, avrei lasciato perdere il resto. In ogni caso, qualche informazione aggiuntiva avrebbe comunque rappresentato, in una direzione o nell’altra, un indizio ulteriore nel mosaico che si era ormai formato e che – a quanto vedevo – interessava anche Larson.

L’unico modo per saperne di più sugli ultimi anni di Akundjanov era di mettersi in contatto con qualcuno che l’avesse conosciuto ad Irkutzk. Con l’aiuto prezioso dell’Istituto di Larson, trovammo dei contatti affidabili nella capitale della Siberia meridionale, situata sulle sponde di un lago che – da solo – contiene circa un quinto delle riserve di acqua potabile del globo. Opportuni bonifici bancari internazionali ci assicurarono la dovuta collaborazione e discrezione ma, per farla breve, in sei mesi non apprendemmo un bel niente.

Il vecchietto non si era fatto notare; come membro di un paio di associazioni locali, non si era dato pena di diffondere i risultati delle sue ultime ricerche. Ciò non deponeva né a favore né contro la sua stabilità mentale. Confermava solo – ma già lo sapevamo – che il suo scoop sulle performance dell’altalena non aveva precisamente l’appeal di una notizia da prima pagina, né sembrava argomento sufficiente per organizzare una conferenza presso l’equivalente locale del Rotary.

Ma forse Akundjanov era semplicemente deluso o disilluso: la mancata conquista di riconoscimenti l’aveva reso ciò che in effetti era, un vecchio pensionato solitario. L’unico particolare in qualche modo interessante consisteva nel fatto che il professore non era stato scoperto un bel giorno dalla domestica, morto durante la notte nel suo letto. No: il suo certificato di morte risultava stilato ufficialmente nel 1986, essendo passati i rituali dieci anni dalla sua scomparsa. Scomparsa in senso letterale: Akundjanov era improvvisamente svanito nel nulla, nel 1976. Questo particolare – non riportato neanche nel dossier del mio amico dell’ambasciata russa – aggiungeva un pizzico di mistero (nel caso ne sentissi il bisogno) al quadro. Del resto, nella Grande Madre Russia quanti erano i vecchi che sparivano da un giorno all’altro? Beh – riflettei – questo magari era più vero oggi che ai tempi dell’Unione Sovietica, ma certo anche all’epoca dei fatti non sempre il KGB correva dietro ai vecchi pensionati spariti, anche se avevano studiato con Landau. Soprattutto se questi vecchietti, magari un po’ depressi, vivevano vicino alle sponde di un lago profondo milleottocento metri.

In tutto e per tutto, dalla serata del trionfo di critica e di pubblico del giornalista-tacchinatore, quando avevo sentito parlare dell’altalena per la prima volta, erano passati più di tre anni. Vero era che nel frattempo avevo raccolto più informazioni di chiunque altro sul misterioso oggetto, ma era altrettanto vero che in definitiva non ne sapevo molto più che all’inizio. In realtà avevo finito per occuparmi molto più del professore che del fulcro della sua ricerca, che restava definibile nei termini usati dal vecchio usbeko e da Ahmanov: una leggenda a sfondo religioso.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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