Fu così quasi per disperazione che una bella mattina di ottobre, sotto un pallido sole siberiano, scesi gli sgangherati scalini di pietra dell’edificio che mi ospitava, munito di un lasciapassare gentilmente fornitomi dalle controparti russe del progetto. Ero scortato dalla mia recalcitrante interprete; piano di volo: la biblioteca di uno degli istituti di Fisica.
In quel regno dimenticato di polvere e abbandono, avversato dalle agguerrite bibliotecarie, giocai le mie ultime carte. Dopo essere riuscito con evidente sforzo a far fare loro il lavoro per cui venivano miseramente pagate, ebbi il mio premio, e scoprii l’insperato. L’eminente prof. Akundjanov era esistito, e aveva lasciato traccia di sé negli scaffali della biblioteca. Dopo un’altra mezz’ora spesa a convincere le guardiane ad accendere la fotocopiatrice e – cosa per loro apparentemente inaudita – a metterla in funzione, una scurissima copia di “Velikie kacheli” fu nelle mie mani. Ne scorsi il contenuto: in tutto l’articolo di 20 pagine c’erano sì e no dieci formule e equazioni, apparentemente tutt’altro che cruciali per la descrizione. Con la piena consapevolezza di commettere un arbitrio bello e buono, obbligai la mia interprete a dare buca al fidanzato, per passare invece l’intero pomeriggio a tradurre l’articolo. Cento dollari bastarono a tramutare il suo iniziale disgusto in una leggera felicità.
Alle nove della sera stessa, disteso nel mio lettino, stavo leggendo la traduzione inglese del delirio di un pazzo.
A meno che la mia interprete non fosse impazzita pure lei, il senso dell’articolo sembrava incentrato sulle presunte anomalie nel comportamento fisico di un’altalena. In sostanza – si diceva – quella particolare altalena non oscillava come avrebbe dovuto, in base alle note leggi del pendolo e della gravità. Considerata in prima approssimazione come un sistema isolato (ipotesi di lavoro senz’altro plausibile, concordavo anch’io), la “potente altalena” non conservava la quantità di moto, cioè l’energia. La cosa assurda è che la non-conservazione avveniva con segno positivo: come dire che, sotto spinta, accelerava più del dovuto. Le poche formule, semplici e meramente illustrative – come avevo immaginato -, descrivevano semplicemente il moto di un pendolo sottoposto a impulso. A esse Akundjanov aveva aggiunto un fattore, in alcuni casi proporzionale e in altri legato ad ipotesi meno semplici, che tentava di simulare il supposto comportamento “reale” dell’altalena. Il tutto era ridicolo per due motivi. Il primo, che da solo tagliava la testa al toro, era che secondo le equazioni descritte l’altalena violava tutti i principi della termodinamica. Quell’altalena era un moto perpetuo.
Il secondo motivo, più grottesco che comico, era che Akundjanov aveva basato le proprie elucubrazioni non su di una diretta osservazione scientifica, e men che meno su di un esperimento, bensì su informazioni che gli erano state riferite da estranei. Il professore descriveva in una nota, come in una lista della spesa, le “istruzioni” che di volta in volta aveva dato ai suoi “collaboratori sul campo” e le successive rilevazioni di costoro. Quindi l’articolo si basava su ciò che dei viaggiatori (magari dei pastori) avevano riportato ad Akundjanov di aver fatto e misurato in merito al comportamento dell’altalena. Non c’era menzione né degli strumenti di misura né dei metodi di misurazione.
In perfetta sintonia con la realtà di Akademgorodok, l’illustre accademico si era bevuto il cervello: non c’era da stupirsi fosse caduto in disgrazia.