L’Altalena (cap. 1 “Indizi” -1)

L

Sono sempre qui, seduto sulle assi di legno, le orecchie piene dello sbattere dei teloni, quasi un tuono. Come può questo semplice vento agitare simili paramenti?

Dovrei scendere e andarmene, questo dovrei fare. Sono ormai quasi due giorni che me lo ripeto.

Ma sono stanco, molto stanco.

E ho paura.

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Capitolo 1 – Indizi

La prima volta che ne sentii parlare fu ad una festa, una specie di ritrovo tra amici. Beh, amici…: conoscevo sì e no la padrona di casa, ma non si può sempre andare per il sottile, no?

Me ne stavo in terrazza a guardare le luci delle case di fronte, godendomi quello che ogni buon creativo avrebbe riconosciuto come un mio “momento Martini”, quando arrivò un VeroUomo con annesso codazzo di galline stagionate. Si piazzarono tutti sulle (troppe) sedie libere, rovinandomi l’atmosfera di mistico raccoglimento. Il pastore di galline si rivelò immediatamente per essere persona di grande cultura & viaggiatore provetto, autentico esperto di serate mondane, zona semicentro.

Non capii subito di cosa stesse cianciando, benché fosse impossibile non sentirlo. La sua voce, allenata appositamente negli anni per colpire con brividi esotici le orecchie di quel particolare tipo di vecchie galline, era al tempo stesso potente e suadente nonché – mi convinsi – la principale responsabile dell’improvviso surriscaldamento della mia cocacola.

Ma le mie cospicue capacità di estraniarmi non erano sufficienti: dopo un po’ lo sentii distintamente iniziare una conferenza su cosiddetti “giochi sociali” o simbolici, tipo quei tizi che si buttano con una corda alla caviglia giù da torri di bambù, e idiozie simili da buon selvaggio.

Si capisce: lui li aveva visti tutti, uno per uno. Peccato solo – mi trovai a pensare – non si fosse fermato più a lungo, magari ad affrontare qualche varano a mani nude.

Ad un certo punto disse: «Poi, naturalmente, c’è la grande altalena». Pausa a effetto, in attesa che le auguste matrone chiedessero delucidazioni, come infatti subito avvenne. «La grande altalena» – ripeté – «la più grande altalena del mondo».

Lo trasmise con la stessa nonchalance con cui si può dire “in giardino tengo un elefante carnivoro con tre teste”, e soprattutto come se l’avesse progettata personalmente e poi costruita con le sue mani, quell’altalena. Quindi iniziò a sproloquiare di questo grande giocattolo, sul quale certi iniziati di non so quale sperduta landa farebbero su e giù, «segnando» – così enfaticamente concluse il maestro del pollaio – «il Tempo del Mondo».

Prevenni allora, inaspettatamente anche a me stesso, la prossima ovvia quaestio delle tardone: «Chiedo scusa» – dissi – «ma lei dove l’ha vista, quest’altalena?». Riconosco che la mia domanda non era stata formulata in un tono troppo diplomatico, e forse questo spiega l’atteggiamento non del tutto sereno con cui il grande viaggiatore ammise: «No, purtroppo non l’ho vista». Affrettandosi quindi a specificare, a salvaguardia della propria immagine: «Credo che da moltissimi anni nessuno l’abbia più vista».

A parte il sapientone, devo ammettere che l’idea di una grande altalena mi stuzzicava. Da bambino le altalene erano state il mio gioco preferito, e non per modo di dire. Spesso mia madre, per evitare urla, strepiti e lacrime, era costretta a portare me e mio fratello, a volte persino di sera e col buio, al giardino pubblico vicino a casa, dove avevano stanza ben quattro signore altalene. Isolate dal resto dei giochi da una previdente rete metallica, le altalene di Piazzale Rosmini erano il prodotto della migliore tecnologia dei primi anni ’60. Più grandi della media, con un robusto sedile di legno, snodato rispetto alle lunghe aste di ferro. Aste di ferro, non catene: questa è la differenza tra un’altalena seria e una finta. Le aste rigide, non piegandosi, permettono all’acrobata di salire in alto. Anche molto in alto, fin sopra la trave superiore. Certo, è più pericoloso, ma noi figli del boom economico sprezzavamo il pericolo molto più dei morbidosi, viziati e pavidi coccoloni di oggi, e quelle erano le nostre altalene. A dire la verità, anche a quell’epoca esistevano altalene a catena, ma noi le snobbavamo. Anzi, deridevamo in segreto ma crudelmente gli sfortunati che non disponevano, vicino a casa, di vere altalene come le nostre. Insomma, da sempre esistono bambini di serie A e di serie B: gli uni crescono sulle altalene con le aste, gli altri – dovunque crescano – non saranno mai come i primi.

Su quelle quattro altalene si sentivano storie straordinarie. A turno, ciascuno di noi narrava di imprese sempre più ardite compiute su di esse, di cui era stato spettatore o – più raramente – protagonista. Ricordo però distintamente (e mi venga un colpo se non è vero) di una volta in cui tale Pierpaolo si era spinto così in alto che le aste avevano finalmente incontrato il fine-corsa. Bloccatasi improvvisamente, l’altalena aveva proiettato il malcapitato in una parabola quasi perfetta, l’imperfezione essendo dovuta al suo disperato tentativo di reggersi alle aste prima di volare via definitivamente: ciò aveva rovinato la simmetrica perfezione del suo arco, aggiungendovi però una torsione che – a parte la sgradevolezza estetica – gli aveva causato molti più danni in fase di atterraggio. Quel volo carpiato mi era rimasto impresso, sia per l’urlo che ne era seguito (e il sangue, e le grida delle mamme, e l’accorrere dei soccorsi) che soprattutto per il suo valore di monito. L’altalena, tutte e quattro quelle altalene, si erano infine palesate per ciò che veramente erano: creature aliene e un po’ minacciose, che come certi cani ti fanno giocare per anni, e poi un bel giorno ti azzannano alla gola.

Per fortuna, in quell’epoca non c’erano né ambientalisti, né salutisti, né genitori politicamente corretti. Dopo il sacrificio del povero Pierpaolo (molto contuso ma in sostanza illeso), nessuna rappresaglia aveva colpito i nostri totem, che avevano continuato a svettare nel sole, nella pioggia o alla luna, misteriosi e indisturbati.

Per riassumere, parlare di altalene non mi ha mai annoiato, stimolando anzi ricordi piacevoli, come tutti quelli di chi ha avuto un’infanzia serena.

 

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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