Il folle in verde

I

Raccontino “di neve”, scritto una sera d’agosto per i miei figli, che non l’hanno mai letto.

I primi due paragrafi non sono di fantasia, ma sono fatti accaduti.

 

IL FOLLE IN VERDE

Quel pomeriggio, sulle piste c’era un gruppetto di studenti di scuola media in settimana bianca, che si preparava all’esame per l’assegnazione ai gruppi di merito. A un tratto, senza preavviso, una nebbia fittissima a coprire tutto. Per meno di un minuto, a valle si continuarono a sentire i richiami del maestro, diventato nel frattempo invisibile. Poi più niente. Nebbia come ovatta: visibilità a zero e isolamento completo. In quel silenzio, un fruscio sulla neve, sempre più forte. Un’ombra in movimento, dal bianco lattiginoso: uno sciatore, velocissimo, si arrestò derapando proprio davanti ai ragazzi. Li guardò per un lungo momento, come sovrappensiero. «Cosa fate, qui?» – chiese. «C’è la nebbia» – qualcuno rispose. Sotto gli occhiali antiriflesso, dietro le rughe, l’uomo sembrò riflettere su di un qualche significato profondo di quell’ovvia risposta.
«Sì, c’è la nebbia» – concluse. Quindi, con un semplice colpo di bastoncini, come in un sogno ripartì verso dov’era venuto. Agli studenti restarono le sue ultime parole: «Non vi perdete!» e – si dirà poi – l’ombra di un sorriso bianchissimo sulla pelle abbronzata.
In pochi minuti, rapidamente com’era comparsa, la nebbia svanì, e i ragazzi videro il maestro che gesticolava ai piedi della seggiovia. Di nuovo la sua voce, che li chiamava a scendere. E così fecero.

Per il resto del pomeriggio e durante la sera, la storia si propagò come una malattia infantile tra gli studenti. A fine giornata, il misterioso sciatore era più famoso dello stesso maestro di sci; il che – a quell’età – è tutto dire.

L’indomani mattina, mentre i compagni prendevano la seggiovia, il più sveglio dei ragazzini del gruppo rimasto nella nebbia raggiunse sci in spalla il luogo dello strano incontro, col proposito di verificare alcuni particolari.
Si guardò intorno, perplesso. Non si era sbagliato: la giornata limpida confermava l’impressione del giorno prima. Lì si era quasi in piano: solo un lieve declivio scendeva verso la seggiovia. Nessuno sarebbe potuto arrivare in piena velocità e a maggior ragione ripartire altrettanto velocemente, in salita, solo con un colpo di bastoncini. E per andare dove? In quella direzione c’erano solo campi coltivati. A una cinquantina di metri dal posto, un filo spinato delimitava i terreni. Da dove veniva e dove stava tornando, lo sciatore? Come ultimo particolare, il ragazzo ricordò che l’incontro era avvenuto verso le quattro del pomeriggio, quando lo skilift era ormai fermo da diverse ore.

***

Non scio più da molti anni, da quando a prendere una seggiovia sembra di essere fuori dei cancelli di un concerto rock. In pista, poi, bisognerebbe presentarsi armati. Non scio più, ma sapevo sciare. Nel febbraio 1971 avevo undici anni e stavo imparando, su sci che non curvavano da soli come quelli di oggi: dovevi proprio farli girare tu. Avevo appena ricevuto in regalo i miei primi legni, che avrei inaugurato durante la settimana bianca che mi stava aspettando. Scesi dalla corriera, mentre il turno della settimana precedente attendeva proprio noi davanti all’albergo, per tornare a casa con gli stessi pullman che ci avevano portati lì a Lavarone, Trentino. Mi si avvicinò mio fratello, e salendo sulla sua corriera mi raccontò in fretta una strana storia. Otto giorni prima aveva incontrato un uomo, nella nebbia. Uno sciatore che – aveva controllato – non poteva venire da nessuna parte, ma che proprio da lì era arrivato e verso di là era ripartito. Nessuno l’aveva più visto, per tutta la settimana. Mi disse che i compagni lo avevano soprannominato Il Folle in Verde, per il colore della sua tuta da sci.

Stavo imparando a sciare, ed ero bravino. Fui assegnato al gruppo dei bravi, anche se non a quello dei bravissimi. Per tutta la settimana cercai sulle piste qualcuno vestito di verde, ma non vidi nessuno.

***

Eravamo in cinque, tutti al primo anno di università. Il mercoledì saltavamo le lezioni per andare a Sella Nevea. Mattina-sera, un divertente massacro che a vent’anni accetti volentieri. Il mercoledì sulle piste non c’è nessuno. Nella era molto brava, più di me: nazionale femminile ragazzi, qualche anno prima. Quel giorno in tutta la valle c’eravamo solo noi, e lei mi propose un fuori pista. Va bene, andiamo. Persi gli altri, ci inoltrammo per un canalino di neve fresca. Ci fermammo un attimo per prendere fiato, nel silenzio assoluto. Nella guardò in alto, alle mie spalle. Qualcuno stava in cima alla collina. Sembrò osservarci, poi si lanciò di traverso per quella pendenza impossibile, mentre noi aspettavamo solo l’inevitabile botto. Non ci fu: giunto in fondo al canalino, cento metri a monte da dove stavamo, lo sciatore non rovinò a terra e non accennò neanche a rallentare, ma risalì invece l’altro versante come fosse stato un pendolo senza attrito. Nella era stupefatta, ma io più di lei: quel tizio era vestito di verde.
Chiedemmo alla seggiovia: nessuno lo aveva visto prima, né salire né scendere. Al ritorno, in macchina, non aprii bocca per tutto il viaggio.

***

Auronzo è un paese strano, lungo lungo e sottile sottile. A valle dei suoi undici chilometri c’è una spettacolare diga, dove le acque precipitano rombando. Giorgio sciava bene anche lui, ed io ero fuori allenamento. Sulla pista troppo frequentata facevo fatica a evitare i deficienti, quando uno di essi mi passò letteralmente sopra la testa, fermandosi con stile perfetto. Mauro, un vecchio compagno di scuola. Dopo uno scambio di improperi e di “che ci fai tu qui?” proseguimmo insieme. Passò circa un’ora di sfottimenti e racconti, mentre con alterne fortune continuavamo a difenderci dagli imbecilli e dagli incapaci. Cominciò a cadere una neve morbida, fresca, intensa, completamente fuori stagione. Stavamo su uno stretto sentiero tutto curve – io e Giorgio davanti e Mauro dietro – quando avvertii una sensazione strana, molto strana, come di pericolo imminente. No, non di pericolo, di avvenimento. Improvvisamente, da dietro sbucò uno sciatore che viaggiava a una velocità inaudita. Per evitarci uscì di pista, scendendo di un metro verso il dirupo sulla nostra sinistra. Risalì senza il minimo sforzo, quasi senza piegarsi sulle gambe, come se si fosse trovato su delle rotaie, e ci sparì davanti. Doveva andare a cento all’ora, almeno. Era vestito di verde. «Chi cavolo è quello?» – chiesi a Mauro. «Non lo so, l’ho visto anche ieri, ma non l’avevo mai visto prima».

***

Riuscii in qualche modo a dimenticarmi tutto, di Lavarone, Sella Nevea e Auronzo, fino al gennaio 1984. Il muro della nera delle Tofane fa impressione, anche visto dalla seggiovia. Mentre salivo, notai due cose: un gruppo di bambini che facevano lezione su quella difficile pista e uno sciatore improvvisato che si trovava dove non sarebbe mai dovuto stare, cioè sopra di loro. L’idiota, già di per sé in equilibrio instabile, aveva deciso che via il dente via il dolore, e si stava lanciando giù dal muro. Fatti due metri perse prima un bastoncino, poi subito l’altro. Quindi gli si staccò uno sci. La pista era ghiacciata, e dopo una corsa cieca di venti metri cadde, non per questo perdendo velocità. Cominciò a urlare come un ossesso, in francese. Sì, per essere così idiota era probabile fosse francese. Il maestro dei bambini, che stava più a valle di loro, si mise a gridare ai suoi allievi di togliersi di torno, ma un piccolino che avrà avuto sì e no sei anni era paralizzato dalla paura: l’idiota stava scivolando come una valanga proprio verso di lui. Dal fianco del bastione della Tofana di Mezzo sbucò improvvisamente una figura piegata a uovo, più veloce del francese, più veloce di una valanga, più veloce della paura. Distendendosi, afferrò al volo il bambino che piangeva, un istante prima che il disastroso sciatore gli rovinasse addosso. Con un’ampia curva verso sinistra raggiunse il maestro di sci e depositò delicatamente il piccolino vicino all’istruttore. Non si fermò e mi sembrò non dire niente, ma proseguì invece verso il bastione da cui era venuto, e dietro al quale sparì in pochi secondi. Anche la mia seggiovia non si era fermata, né io avevo detto niente. Non avrei saputo cosa dire: a soccorrere il bambino era stato non un uomo, ma un razzo: un razzo vestito di verde.

***

Non scio più, l’ho detto. Ho quarant’anni, sono troppo vecchio, non ho mai comprato la pistola che servirebbe per destreggiarsi sulle piste di oggi. Ma non riesco a dimenticare. Non sono mai più riuscito a dimenticare, da quel giorno. Non so neanche il tedesco, ma quello che ho in mano lo capisco lo stesso. Queste foto sono di Passo Pramollo, e qui si parla di un misterioso sciatore che – stando all’articolo – un mese fa ha tirato fuori da guai seri quattro scapestrati che si erano persi nella nebbia. Li ha guidati a valle – dice qui – dopo che si era già fatto buio, e proprio quando i maestri austriaci si stavano organizzando per cercare i dispersi. Non so il tedesco, ma capisco quando si dice che l’uomo era vestito di verde, e capisco anche quando dice che non si è fermato ad aspettare ringraziamenti, ma si è voltato ed è sparito nel buio.
Non scio più, ma da domani ricomincio.

***

E’ dura, accidenti se è dura! Questi nuovi sci aiutano molto, ma è tutto il resto, che mi manca. Al primo campetto sono caduto venti volte in dieci minuti: si dice sia come andare in bicicletta, che una volta imparato non lo scordi più, ma non è vero niente. Se vuole salvare qualcun altro, è meglio che il tizio in verde pensi a me. Non ho fiato, sono pesante, sono goffo: una vergogna. Ma sono anche testardo, e ho tempo.
Tanto per cominciare, la prossima settimana niente viaggio: torno qui ad allenarmi. Ma è dura, è dura…

L’altra settimana sono stato a Cortina, con amici. Due o tre erano meglio di me, ma non poi così tanto. Dicevano che è come andare in bicicletta: è vero. Il pomeriggio tutti al bar, loro. Io sono rimasto in pista finché non hanno chiuso baracca. Dello sciatore in verde nessuna traccia, neanche qui.

Ho capito una cosa: sulle piste non lo troverò mai. Devo provare il fuori pista, che è un’altra cosa.

Fuori pista, mi sono perso. Sono tornato a Camporosso che era buio da due ore. L’ultimo pezzo è stato un massacro, nel bosco. Mi sono quasi slogato una spalla ed ho escoriazioni dappertutto. La tuta sembra reduce da un incontro con una tigre siberiana. Mi hanno detto tutti: non fare il fuoripista da solo. Ma chi ci viene, in mezzo alla settimana, a sciare fuori stagione?

Sono fuori da tre giorni, con la tenda. E’ magnifico, compresa la solitudine. Ieri ho visto un cerbiatto e lui ha visto me. Ho provato a inseguirlo tra i pini, ma è scomparso quasi subito.

Continuo a vedere cerbiatti, come il primo, un anno fa. Una cosa strana: sembrano non temermi. Uno mi è venuto quasi vicino e pareva mi invitasse a seguirlo. Si è inoltrato tra gli alberi, e io dietro. O andava piano lui o andavo forte io, sta di fatto che abbiamo continuato così per mezz’ora. Quando mi sono detto basta – l’ho solo pensato – lui si è fermato come se mi avesse sentito; ha atteso un momento e poi ha proseguito da solo. Credevo di essermi perso, e invece ho ritrovato la strada facilmente, come per miracolo.

Questi sci nuovi sono incredibili: non solo girano da soli, ma vanno da soli. E’ ben vero che da tre anni a questa parte sarò dimagrito di dieci chili, ma pare proprio che non sentano il mio peso. Diavolerie della tecnica.

Sono tornato a Lavarone, un po’ per rivedere i vecchi posti e un po’ per disperazione. Sono quattro anni che non faccio altro che girare per tutte le Alpi, e del Folle in Verde non ho più trovato né traccia né notizia. Forse ha appeso gli sci al chiodo, forse è morto, forse è sull’Himalaya. Comunque non è a Lavarone, questo posso dirlo con sicurezza. Qui mi prendono un po’ per matto, a venire giù col buio. Ma gli ho spiegato la storia, più o meno: gli ho detto che ho cominciato a sciare da queste parti, anche se non è del tutto vero. Una specie di percorso della memoria. Mi considerano strambo – e forse lo sono – ma hanno capito che basta lasciarmi in pace e non sono pericoloso.

A proposito di percorsi: una cosa da non crederci. Ho trovato una strada, una specie di sentiero, che mi porta in cima alla pista quasi senza sforzo. Eppure, da quassù, la discesa sembra bella ripida. Cioè no, è ripida, ma evidentemente ho trovato il modo di arrivare in vetta prendendola larga. Il mio passo di pattinaggio è un bel vedere, senz’altro, ma sono soprattutto gli sci, devono essere quelli. Sotto di me Padola, Val Comelico: è qui che ho imparato a sciare, quarant’anni fa.

Mi conoscono tutti. Sanno che vengo quasi solo fuori stagione, ma adesso sono qui per un paio di giorni tranquilli. Tranquilli si fa per dire: è pieno di deficienti, sotto capodanno. Li schivo senza neanche badarci: qualcuno mi grida dietro, qualcuno resta di sasso. Non ci faccio caso; se lo facessi, dovrei spaccare facce sceme ogni cinque minuti. Meglio non farci caso.

Quest’anno non c’è quasi neve. La mia famosa abbronzatura permanente rischierebbe grosso, se me ne fregasse qualcosa. Ma a stare all’aria fredda e al vento mi è venuta una pelle come una scorza. Ieri in centro mi hanno chiesto se sono una guida alpina. Io? No, sono un tipo di città, che però usa il suo tempo libero – tutto il suo tempo libero – per sciare, invece di stare al bar a lumare le pupe.

Sono sul Bianco per il giro dei dieci giorni. Sarebbe vietato, in questa stagione, ma chissenefrega. E poi, perché lo chiamano il giro dei dieci giorni, se ce ne metti quattro?

Quest’anno non è che ci sia poca neve: non ce n’è per niente, solo una spruzzatina qui e lì. Ma sto imparando a saltare da una chiazza all’altra. Questi sci sono formidabili: quando sono veloce, riesco a saltare anche per dieci metri. A guardare da fermo quasi non ci credo neanch’io. Chiazza, salto, chiazza, salto. E’ divertente.

In albergo è successa una cosa buffa. Dei tizi stavano raccontando di uno che hanno visto venire giù in mezzo al prato, come se volasse. Per un po’ non ho capito di che stessero parlando, poi mi sono reso conto che quello che avevano visto ero io. Buffo davvero. Ma non è vero che non ci fosse neve. Un po’ c’era. Poca – d’accordo – ma c’era.

Ho fatto qualche conto. Sono dodici anni che mi sono messo a cercare il Folle in Verde, ma è proprio da quel momento che non ne ho più sentito parlare. Mi sono fatto quasi tutti i fuori pista d’Europa, ma niente. O si è sposato sull’Everest, oppure…. Eh, già! Ho fatto qualche altro conto: sto cercando qualcuno che non può esserci più. Avevo undici anni, adesso ne ho cinquantadue. A quell’epoca, quanti anni poteva avere lo sciatore misterioso? Trenta, quaranta? I ragazzini – anche quelli svegli – non sono bravi a capire l’età dei grandi. Mettiamo avesse trent’anni, quando mio fratello l’ha visto. Adesso ne avrebbe una settantina. E chi se lo immagina, un settantenne a fare il pazzo sulla neve? Se è in Nepal (perché qui non c’è), si starà godendo la pensione.

***

Non esagerare, mi dicevano tutti. Va bene, ho esagerato. Sono solo, in mezzo alla tempesta. Mi sono fidato troppo delle mie capacità, del mio stile, che qualcuno che mi ha visto definisce “leggendario”. Non scherziamo, sono solo bravino. Comunque adesso son qua, in mezzo alla tormenta. Fa talmente freddo che non sento più freddo. C’è un tale frastuono di vento che non sento niente: il rumore assoluto è come il silenzio assoluto. Perciò sono calmo, calmissimo, ma è sin troppo ovvio che mi devo togliere di torno: la tenda è andata in pezzi, e la tuta ha diversi squarci. Anche se non ho freddo, devo trovare qualcosa da mettermi. Il primo sintomo del congelamento è proprio non avere più freddo. E non ne ho, per niente.
Il vento sarà a duecento all’ora, ma posso farcela. Perché so sciare.

Una capanna, quella è una capanna. Presto, dentro! Non so come l’ho vista, in mezzo a ‘sta bufera, ma l’ho vista.
E’ tutto in rovina. C’è più rumore dentro che fuori. Cos’è ‘sta roba? Una tuta da sci. Che ci fa qui? Non importa, addosso. Sta scendendo la notte, è buio. Non vedo niente, ma una tuta me la so ancora mettere, credo.
Com’è strano. Al riparo nella capanna di tronchi, sembra proprio che il frastuono nasca da dentro, non da fuori. Questo rumore mi innervosisce, di dormire neanche a pensarci. Che faccio, aspetto faccia giorno? No, adesso vi faccio vedere io. C’è una bufera mai vista, e chissenefrega. Sono ben coperto nella tuta recuperata (e non avevo freddo neanche prima) e – te lo dico io – so sciare. E allora sapete che faccio? Vado fuori e scendo a valle, e che la tempesta si fotta.

Sono fuori, e il rombo è aumentato. Anzi no, è diminuito. Anzi no, è come prima, solo che non mi dà fastidio. Nessun fastidio. Qui fuori è solo una cosa naturale, mentre dentro la capanna era innaturale. Non combattere la tempesta, vivici dentro. Il vento viene dalla montagna, e s’incanala e sibila verso valle. Bene, lo cavalcherò. Non occorre neanche partire; basta decidere di farlo che sono già nel vento. Non devo fare nulla, il vento mi spinge a valle. La notte è piena, il buio è completo, ma la neve è bianca. Quando davanti a me non è bianca, significa che devo saltare. Ho persino gli occhiali scuri addosso, ma non fa differenza: quando vedo che devo saltare, salto. E atterro sempre dove è bianco, fino alla prossima chiazza scura, al prossimo masso. Mi sto abituando anche al buio: vedo i massi in anticipo, e decido se saltare o giragli attorno. Il vento mi aiuta, in tutti e due i casi. Il vento non è cattivo, lo è per chi non lo sa usare. A volte sembra mi voglia sbattere di qua e di là, ma sono talmente veloce che resto sempre in linea. Lui non mi sbatte, mi accarezza e mi incoraggia. Gli alberi scorrono, il bosco scorre, i massi scorrono: tutto è perfetto. Io volo nel vento, e lui vola con me.

Decido di giocarci, la sfido a seguirmi nel bosco, come fanno con me i cerbiatti. E la bufera mi segue, attutita, nella foresta. Gli alberi sono fitti, ma gli sci miracolosi. Niente più massi, qui: sassi e alberi, alberi e sassi. E la mia neve, amica del vento. E questi sci miracolosi, amici della neve. Non è una fuga a valle, è una gita in compagnia. Non voglio finisca. Sterzo bruscamente, e mi metto controvento. E’ sempre un gioco: vediamo chi è più forte. Tu hai il tuo soffio, io il mio passo pattinato. Scusami, mi spiace, ma oggi sono più forte io. Così torno su, con il vento che soffia verso di me. Non so quanto dura, credo ore.

Si è fatto quasi giorno, ora di tornare. Esco dal bosco. Ringrazio il vento, che mi sta lasciando. Ringrazio gli alberi, che mi hanno fatto compagnia. Ringrazio la neve, che non mi lascerà mai.
Riprendo la pista, dove è rimasto solo il ricordo della tempesta. Sta facendo chiaro, comincio a distinguere i particolari. Arrivo a valle come un razzo, ma mi fermo. Cosa faccio, adesso, qui? Non è questo, il posto per me. Sono coperto, ben coperto nella tuta.
La tuta. La luce. La tuta nella luce del nuovo mattino.

***

“LA NOTTE SCORSA UNA TEMPESTA VIOLENTISSIMA HA INVESTITO LA CRODA ROSSA. TRE SCIATORI – DUE AUSTRIACI E UN ITALIANO – SONO STATI RECUPERATI DALLE SQUADRE DI SOCCORSO, A 1400 METRI DI QUOTA. NON SEMBRANO CORRERE PERICOLO DI ASSIDERAMENTO.
IL COMANDANTE BRUSTOLON DEL SOCCORSO ALPINO RACCOMANDA ANCORA UNA VOLTA DI NON AVVENTURARSI IN MONTAGNA IN CONDIZIONI CLIMATICHE NON OTTIMALI, EVITANDO ASSOLUTAMENTE QUALSIASI ATTIVITA’ SCIISTICA FUORI-PISTA.”

“IL PROPRIETARIO DEL RITROVO ‘STELLA DELLE ALPI’ E UN FORNITORE LOCALE HANNO AFFERMATO DI AVER VISTO STAMANE, VERSO LE ORE 7, UNO SCIATORE SCENDERE DALLA MONTAGNA. IL COMPORTAMENTO DELL’UOMO E’ SEMBRATO INCOMPRENSIBILE: L’INDIVIDUO SI E’ FERMATO A CIRCA 50 METRI DAI DUE, QUINDI E’ TORNATO VERSO IL BOSCO, SCOMPARENDO RAPIDAMENTE ALLA VISTA. IL SIGNOR ZORZI, PROPRIETARIO DELLO ‘STELLA DELLE ALPI’, HA DICHIARATO CHE GLI SCI DELLO SCONOSCIUTO DOVEVANO ESSERE DOTATI DI QUALCHE MECCANISMO NASCOSTO, PERCHE’ L’UOMO – IN SALITA – HA RAGGIUNTO RAPIDAMENTE UNA “VELOCITA’ INNATURALE”. IL FORNITORE, SIGNOR MENEGHELLO, HA CONFERMATO L’IMPRESSIONE DELLO ZORZI.
LA DISTANZA NON HA PERMESSO NE’ ALLO ZORZI NE’ AL MENEGHELLO DI IDENTIFICARE L’UOMO; L’UNICO PARTICOLARE NOTATO DAI DUE E’ CHE IL MISTERIOSO PERSONAGGIO INDOSSAVA UNA TUTA DA SCI DI FOGGIA ANTIQUATA, DI UN BRILLANTE COLORE VERDE.”

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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