Roma passa per una città poco romantica. Non per gli scenari, il cui romanticismo trova massima e stucchevole alchimia in puttanate come “Vacanze romane”, con quell’insopportabile gallina di Audrey Hepburn, ma per gli abitanti. “Ahò, levete da mezzo, che devo da passà!” è il tipico, scarsamente romantico interloquire (a volte solo mimato) dei romani, sempre indaffarati in qualcosa che richiede estrema urgenza.
In un solo caso il romano mette da parte ogni premura (prescia – nel linguaggio locale) e si ferma: al suono della parola NEVE.
Il rapporto dei romani con la neve è curioso: in inglese sarebbe tradotto non con strange, bensì con weird, che significa balzano.
Per i romani, esistono tre tipi di neve: quella di Ovindoli e/o Campo Imperatore, che sarebbe a dire una simil-neve all’uscio di casa. Non è neve vera, è un assaggio, una suggestione, un “ce l’abbiamo anche noi” (i romani hanno sempre tutto “anche loro”: mai che gli manchi qualcosa. Anche il mare, dicono. Sta a 50 km, ma è mare lorum). Poi c’è la neve da navigazione, nel senso quella vera dei romani navigati (e benestanti). È la stessa neve che conosciamo anche noi del nord (benché oramai il nord esista solo nei deliri della Lega: da decenni esiste solo il Centro-Nord, perché i romani vogliono avere anche loro un po’ di nord [vedi sopra]). Questa neve è deputata ai soli fini sciistici. C’è un famoso treno Roma Termini-Calalzo, che traduce al nord i romani benestanti ma non abbastanza. La neve sciistica del nord fa fico e non incute timori.
Quello che terrorizza davvero i romani è la neve del terzo tipo, quella dell’incontro ravvicinato (“del terzo tipo”, appunto): la neve su Roma.
Essa viene vissuta non come un evento naturale benché raro, ma come un affronto personale. La neve, anche se bianca, anche se soffice, anche se leggera, cala su Roma solo per rompere i coglioni ai romani, distogliendoli dalle loro urgenti questioni.
La neve su Roma ha un effetto paralizzante. Non intendo rispetto al traffico (come può accadere e accade in ogni altra parte d’Italia), bensì rispetto alla mente del singolo individuo. Il romano ricorda ancora le nevicata dell’85 come ricorda (se non di fede laziale) la finale di Coppa dei Campioni dell’84. O le Forche Caudine di Gaio Ponzio Telesio, o il Sacco di Roma di Alarico. Insomma, come un’umiliazione indelebile.
La neve su Roma, per lo psicologicamente impreparato abitatore della capitale, è il mostro in agguato nell’angolo buio, il babau.
Se per gennaio è ipotizzata come possibile una leggera spruzzata bianca, il romano comincia a parlarne a luglio, sotto l’ombrellone di Anzio. Inizia a prepararsi interiormente. A i primi di ottobre si scopre a scrutare sempre più spesso il cielo, in apprensione. A dicembre il cielo non lo guarda più, per timore di svegliare il mostro. Quando finalmene nevica, il romano esce di casa a fare a pallate e scattare foto e non fa nient’altro. Anche perché il previdente sindaco altro non gli fa fare (forse in gioventù il primo cittadino ha letto “L’eternauta”, dove al minimo contatto con quella neve simil-radioattiva i personaggi morivano come cavallette). L’unico momento di serenità del romano sotto la neve è nell’istante in cui sta nevicando. Non prima, non dopo.
Perché poi a Roma la neve passa in fretta, diciamo pure in frettissima. Ed è qui che il romano mostra davvero la propria pecularità. Si diceva all’inizio che Roma, causa abitanti, non è considerata una città particolarmente romantica. È falso. I romani, dopo la nevicata, mostrano un romanticismo inatteso e pervasivo. Essi, infatti, ricordano l’esatta posizione di ogni lastra di ghiaccio, di ogni cumulo bianco (con i giorni, progressivamente grigio e poi nero), di ogni fiocco caduto, per mesi e mesi e mesi.
Questi giorni giravo in motorino per Roma, su strade più asciutte che nel deserto del Gobi. Eppure, gli automobilisti che di solito interpretano i limiti di velocità dei cartelli come numeri da moltiplicare per due, ma in ogni caso da non prendere troppo sul serio, viaggiavano come se stessero sulla pista del Palaghiaccio di Marino. 20-30 all’ora al massimo. Il sole picchiava sui tettucci delle loro auto, mentre essi scansavano ghiacci immaginari, cumuli virtuali, avanzavano faticosamente, investiti come si sentivano da tormente siberiane, anche se presenti solo come suggestione.
Come non commuoversi, come non stupirsi e intenerirsi, di fronte a tali manifestazioni di attaccamento emotivo a una neve che non c’è? Come non solidarizzare con le vittime dell’inconscio, ostaggi impotenti delle proprie paure? Come non offrire una parola amica, quando l’omino che ti ha tagliato la strada per evitare un miraggio evaporato da giorni, ti guarda complice e supplice? “Eh, sì..la neve…” – gli dici, per confortarlo.
Chi oserà più dire che Roma non è romantica? È una città sous la neige per 365 giorni l’anno, ininterrottamente, dal 6 gennaio 1985.