Bridge

B

Tra i 18 e i 22 anni ho giocato a Bridge. C’era un gruppetto di compagni del liceo che si era messo in testa di imparare, e lo imparammo. Famosa rimase la notte in cui giocammo in giardino (era luglio, mi pare), ma la pratica era fortemente disturbata dalle gran tettone di Rossella, che indossava un vestito rosso molto malizioso. Quella notte imparammo più sugli effetti dell’aria notturna sui capezzoli che sulle licitazioni. Sto divagando, non voglio parlare di questo, anche perché Rossella (che di interessante non aveva solo le tette) è morta giovane: che tristezza. La storia è che in ambito cittadino partecipammo a diversi tornei a coppie e pure a un torneo a squadre, tutto pur di non studiare. In un torneo a coppie, famosissima è la volta che lo facemmo perdere alla coppia di testa: tutta la sala aveva giocato 1 cuori Nord-Sud, io e il mio compagno fummo gli unici a giocare 1 picche Est-Ovest, prendendo il top di mano e lasciando ai nervosi avversari il pot. Ma non voglio parlare neanche delle nostre fortune, perché non c’è molto da aggiungere a quell’episodio.

Mio zio era un forte giocatore di bridge, davvero molto forte e ben classificato in ambito nazionale. Una volta aveva giocato persino contro Omar Sharif. Mi portò anche a vedere i mondiali a squadre, al Lido di Venezia. Io ero assai meno dotato e in più disprezzavo il bridge. Questo perché lo trovavo infinitamente meno equo degli scacchi, dove nessuno nasconde nulla e la fortuna non esiste. Inoltre, contrariamente agli scacchi che sono cosa da nerd, a livello di circolo il bridge era giocato da un consistente numero di teste di cazzo, i famosi “notabili”. Notabili sì, per quanto avevano la puzza sotto il naso e l’atteggiamento “I got it made”. Io non aspiravo a diventare uno di loro e al circolo ci andavo malvolentieri, ma il gioco in sé era divertente sebbene – nella mia testa – non una cosa seria.

Ora, nel tempo libero, sto dando un’occhiata a quello che una volta era semplicemente impossibile: corsi gratuiti di bridge, online. Ed è questo di cui voglio parlare.

Sto seguendo un corso americano (forti giocatori, gli americani). È molto interessante analizzare il loro approccio al gioco, che è essenzialmente meccanico. A suo tempo avevo comprato un paio di libri italiani, che seguivano una logica completamente diversa. Agli americani piace, interessa, nasce il bisogno di definire regole molto rigide: se le carte stanno così, devi fare cosà. Le eccezioni, i casi in cui il cosà non va bene sono certamente illustrati, ma si capisce anche attraverso internet l’angoscia che ciò provoca all’istruttore. Dove – ora esagero – l’ipotetico insegnante italiano scriverebbe “vedi un po’ tu”, l’americano apre la sottosezione teorica EC-24bis e cerca di fartela memorizzare in tutti i modi, assediato dall’horror vacui. L’americano paventa grandemente ciò che non riesce a catalogare, spiegare, razionalmente individuare. Sono certo che le posizioni insolite, quelle in cui il cosà non va bene, siano fonte di statistiche infinite, se non per domare l’indomabile mostro quantomeno per conoscerne usi&abitudini, cioè per esorcizzarlo.

L’americano sdegna abbastanza esplicitamente il cosiddetto “senso della carta”, cioè l’intuito, perché è un concetto non ulteriormente sezionabile, by definition. È come un protone senza quark dentro, o un quark senza stringhe. Come ho scritto tempo fa, gli americani stanno cominciando a giocare sul serio a calcio nello stesso modo: analizzando le statistiche di campo e studiando le biodinamiche del movimento. Tra non molto saranno campioni del mondo, come lo sono stati nel bridge.

Però. Dopo quasi trent’anni di completo disinteresse per tutto quel che riguarda il gioco, in questo istante sono andato a vedermi il palmares delle Olimpiadi del Bridge. Gli americani hanno vinto una volta sola, proprio quella del Lido di Venezia, dove c’ero anch’io a guardare.

Indovinate chi ha vinto sei (6) volte, di cui tre nelle ultime quattro edizioni? 🙂

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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