Wing Chun e altri sport: questioni di metodo

W

Ci sono sorprendenti analogie di approccio tra il wing chun – almeno, quello che faccio io – e lo sci.

Probabilmente ci sono anche tra il WX e qualunque altro sport praticato seriamente, ma al momento posso parlare con cognizione di causa solo di questi due.

A dire il vero, tempo fa chiacchieravo con una mia amica, a suo tempo vera atleta di pallavolo (serie A, non noccioline), e lei mi riportava di metodiche completamente diverse e – anzi – contrastanti rispetto a quelle cui sono abituato.

Veniamo alle similitudini che ho riscontrato. Il mio maestro di sci – Guido Senoner, Selva di Val Gardena – è bravissimo, non solo a sciare ma a insegnare (quello che si vuole da un Maestro, no?). Spiega i princìpi e richiede siano applicati in tutte le diverse situazioni e condizioni di pista. I princìpi dello sci sono pochi – molti meno del WX – e anche le condizioni/situazioni sono meno numerose. La cosa fondamentale, poi, è che mentre scii la pista non prende decisioni proprie, a differenza di un avversario umano.

L’analogia principale è la gestione del corpo. Lo sci moderno – limitiamoci a questo – viene insegnato come “modalità di gestire il corpo” sulla base delle situazioni contingenti (pista) e tecniche (materiali). La gestione del corpo richiede di comprendere i princìpi e di metterli costantemente in pratica. Ho provato sulla mia pelle che più la pista è difficile, più è importante muoversi come la teoria prescrive, anche se a prima vista può sembrare imprudente, pericoloso, persino assurdo. C’è quest’idea del peso a valle (per questo parlo di sci moderno, e non del buon vecchio “peso a monte” che ho imparato 40 anni fa) che sembra fatta apposta per farti cadere, appena la situazione s’incilina (letteralmente). Tu invece fai come ti viene detto e ti trovi automaticamente meglio. Invece obbedisci all’istinto, e alla prima lastra di ghiaccio ti trovi col culo per terra. Nel WX – il mio, beninteso: degli altri non mi occupo – la gestione è tutto fuorché istintiva. È precisa e tassativa, richiede attenzione e sequenzialità logica e motoria. In alcuni frangenti sembra assurda e invece funziona. Se non altro, funziona meglio di tutto il resto che ho visto e sperimentato.

Nello sci, la gestione del corpo è una sola. Stessa cosa nel WX.

Nello sci, non devono esistere movimenti scattosi, bruschi. Ti portano fuori equilibrio, te e i legni che hai ai piedi. La velocità si ottiene in altro modo: rendendoli fluidi e consecutivi. Nel WX, lo scatto è la soluzione di chi ha perso la bussola; il movimento brusco ti porta fuori equilibrio, la velocità dev’essere quella ottenibile solo con movimenti fluidi e continui.

Nello sci non ti devi mai “piantare” in una conduzione statica, che è passiva: gli sci vanno gestiti, non sono loro a dover gestire noi. È vero che essi “vanno da soli”, ma è così anche con un cavallo: lo fai andare se va dove vuoi tu e in questo caso anzi lo incoraggi, ma sei sempre tu a comandare.

Nel WX, comandi il tuo corpo, che deve avere sempre una propensione in una direzione: se no ti “pianti” sul posto, e si fa buio.

Benché il mio maestro di sci non si esprima in questi termini, sciare significa muovere il corpo in una successione di direzioni dove dal (mobile) baricentro del corpo parte un vettore di forza che non scarica mai né verso terra né verso l’alto.

Sono tre anni che sento la stessa solfa nel WX.

Queste sono le similarità nei princìpi. Ma c’è anche un aspetto didattico di cui vorrei parlare.

Il mio maestro di WX insiste molto sull’apprendimento progressivo, quasi lineare. Dalle cose semplici a quelle complesse. Il suo punto di vista è che se non sai gestire le cose semplici, figurati quelle complesse. Quando tutto si complica, c’è sicuramente la tendenza ad abbandonare la tecnica per affidarsi all’istinto. È proprio il punto dove tante scuole, tanti lineage di WX falliscono miseramente, dimenticando tutte le prediche e sfociando nel casino totale. L’ho visto accadere talmente tante volte da non avere il minimo dubbio che succeda. Per questo, il maestro insiste che i princìpi vadano allenati con tale rigore e continuità nelle situazioni semplici da diventare l’unica opzione anche nelle situazioni complesse, che perciò vanno introdotte progressivamente. È un percorso lungo, che non rende nessuno cintura nera in un anno o due, ma ha un suo perché.

Nello sci, invece, il mio maestro adotta un metodo diverso. Dal semplice al complicato al semplice. Applicazione precisa dei princìpi in condizioni facili, applicazione alla bell’e meglio sulla pista nera ghiacciata, ri-applicazione degli stessi di nuovo sulla pista facile. Così l’allievo si rende veramente conto di tutte le difficoltà operative e concrete che può dover affrontare in condizioni libere e sperimenta in prima persona cosa succede in pista nera quando riesce ad applicare i princìpi e quando no.

Ognuno di noi è fatto a modo suo e ha processi cognitivi e – soprattutto – di automatizzazione/ introiettamento-e-digestione dei princìpi, diversi. Posso parlare solo per me, quindi, ma sulla base del mio modo di imparare, io preferisco ogni tanto vedere tutta la storia, anche se non la so gestire. Però la vedo, ho il quadro generale. Per imparare un libro d’esame universitario, per prima cosa me lo leggo tutto, anche se tutto non capisco. Voglio vedere dove va a parare, sapermi orientare rispetto alle conclusioni.

Poiché nello sci come nel WX “tutto è noto a priori”, non ci sono segreti magici che verranno svelati dopo il terzo esame d’oro dalla regina delle nevi o dopo aver imparato fantomatiche forme marziali, il punto è che semplicemente certe cose non le riesci a fare prima di averle maturate, ma non significa che non le sai riconoscere e comprenderne l’importanza in corso d’opera.

Più volte mi è capitato che alcuni “misteri” del WX mi fossero svelati nel momento in cui vedevo il maestro muoversi in un certo modo; naturalmente, avevo bisogno di essere almeno in grado di comprendere “quel modo”, di saperlo leggere anche solo teoricamente. Ma, “possedendo il vocabolario”, lo stimolo, lo spunto, la finalità risultano molto più educativi che il mero procedere in progressione lineare.

Trovo che ogni tanto sia utile sbagliare su cose difficili, se sai capire dove e perché stai sbagliando. Ti aiuta – MI aiuta – a correggere prima lo sbaglio.

Inoltre, serve a gerarchizzare le tecniche che via via si imparano: si vede cosa è importante e perché, cosa è funzionale a cosa, cosa è fondamento e cosa dettaglio.

Va anche tenuto conto che nel percorso di scoperta di un’arte molto spesso si commettono degli errori di comprensione, di percorso. Si crede che una tecnica serva a un fine mentre ne serve un altro. Ci si concentra – come nell’interessante Lo Zen e il tiro con l’arco di Herrigel – in una modalità esecutiva che in realtà è profondamente sbagliata, credendo sia giusta (è un po’ come sbagliare strada: non solo non si progredisce, ma si perde ulteriore tempo nel tornare indietro). Si cercano soluzioni e similitudini che aiutino a memorizzare una tecnica, quando invece non corrispondono all’idea che da lì a poco se ne avrà. Nel corso degli anni, ho cercato di considerare l’insieme delle tecniche, ma più ancora il modo di muovermi dapprima come una giostra cinese, poi come un serpente, poi come le seppie di Matrix, poi come una cascata d’acqua…. Ora so che c’era una parte di verità in ciascuna di queste visioni, ma appunto solo una parte. E ancora non so a cosa dovrebbe assomigliare e se debba per forza somigliare a qualcos’altro il modo di muoversi del maestro.

Ma ogni volta che l’ho visto muoversi “veramente”, libero dai vincoli di dover sottolineare didatticamente una componente o un’altra, ho imparato di più, nel senso che ho visto meglio in che direzione andare io.

Ci sono dei rischi evidenti, nell’affrontare il “difficile” con preparazione insufficiente. Il primo rischio, che però si può tenere a bada con un allenamento intelligente, è di ottenere l’effetto “tela di Penelope”: se l’istintività cancella progressivamente la tecnica, ci si trova peggio che al punto di partenza. Peggio, perché quello che era solo istintivo ora è anche vincolato da “residui” di princìpi giusti ma isolati. Si diventa goffi, per non essere né totalmente tecnici né totalmente istintivi. Un minestrone che rovina la naturale efficacia istintiva.

Qui la risposta è di usare il difficile cum grano salis, non per mettersi alla prova senza regole ma per imparare dove sono le difficoltà che la tecnica dovrà superare. Insomma, testare i limiti avendo bene in mente che dovranno essere superati solo tecnicamente e non istintivamente. Poi, tornare a bomba al perfezionamento tecnico, sapendo che non ci sono scorciatoie.

Un altro rischio è formarsi l’idea che quel tipo di arte, per la sua difficoltà intrinseca, non faccia per noi, che sia meglio provare altro. Legittimo, ma non se è per effetto di un ateggiamento depressivo. Questo è un rischio più evidente nei ventenni che nei cinquantenni come me: noi abbiamo pazienza, meno fregole, meno miti e ambizioni. Ma in linea generale va tenuto conto che a un’arte difficile come il mio WX si possono avvicinare anche i ragazzini più o meno esaltati e molto influenzabili che vogliono emulare nel tempo più breve possibile Bruce Lee o Chuck Norris. Ne ho visti passare diversi, sia in palestra che tra lo stadio di “vi spiezzo in due” e quello di “non sono capace, non fa per me”. Cazzate, ma vallo a spegare ai disorientatissimi ggiovani d’oggi.

Il terzo rischio, che vedo accadere in lineage diversi dal mio, è quello di fare un “minestrone consapevole” (chiamato così per distinguerlo da quello dettato dall’istinto) di tecniche alcune basate su taluni princìpi e altre su altri. È recente l’episodio di una nuova leva che mi ha detto “questo lo faccio in attacco, quest’altro in difesa”. Come dire che sei schizofrenico nelle due fasi, come nel football americano in cui c’è una squadra per l’attacco e una completamente diversa per la difesa.

Così – ripeto: in altri lineage – vedo gente muoversi in un modo quando attacca e in tutt’altro quando si difende. Il problema? Passare dall’uno all’altro modo senza “piantarsi” nel frattempo come peri, dovendo attuare due gestioni corporee del tutto diverse. Funzionasse, andrebbe pure bene: il fatto è che non funziona, perché il cervello deve staccare da una fase all’altra. Quando stacca, l’avversario ti salta addosso e ti finisce in un amen.

Add comment

SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

PUOI TROVARMI ANCHE QUI