Ruzzle

R

Molti, se non tutti, conoscono il gioco per Andoid. E molti ne fanno la loro principale attività intellettuale, quando non esclusiva.

Giocandoci anch’io (è la mia attività intellettuale esclusiva), ho modo di osservare alcune cose.

Uno: è il primo gioco di successo con dei bug evidenti, almeno nella versione italiana, imbottita di parole inesistenti. Diventa così un gioco di scaltrezza (le parole a cazzo te le devi imparare a memoria, invece di ricavarle dalla tua lingua madre) anziché – come dovrebbe essere – di conoscenza. In ciò è assai poco educativo.

Due: diversamente da altri giochi basati sulle parole, tipo Scarabeo, richiede un certo impegno fisico, perché devi agire con grande rapidità. Insomma, se proprio non ti ci sloghi il ditino, comunque ti muovi come un indemoniato. Le caratteristiche pseudo-culturali e quelle di sportiva fisicità digitale contrastano singolarmente, producendo negli osservatori di un giocatore di Ruzzle la sensazione che questi sia vittima di un attacco di malattia rara e orrenda, tipo il ballo di San Vito o il tetano.

Tre: avendo un fondamento pseudo-culturale, il gioco diviene teatro di scontri all’ultimo sangue, perché chi perde sta metaforicamente dimostrando di essere più cretino dell’altro. Conosco un solo altro gioco più violento: gli scacchi. Recentemente una tipa, dopo due turni vinti da lei, mi ha incautamente mandato un messaggio (si può interagire via chat con l’avversario del momento). Diceva: “Hei, scarsone!“, con la tipica crudeltà dei ggiovani insicuri, che cercano di cogliere ogni possibile, per quanto vigliacca, opportunità per auto-affermarsi.

Quattro: partendo dal presupposto che Ruzzle in una certa misura fa emergere il tuo stato d’animo del momento rispetto al delicato tema delle relazioni con altri singoli in un contesto competitivo a espressione di sé limitata, esso diventa un interessante indicatore del tuo grado di stress generale. E, ampliando ma non troppo, del tuo grado di Zen.

Rispetto a ciò, distinguo tre categorie di giocatori. Quelli che giocano per distrarsi, quelli che giocano contro sé stessi e quelli che giocano contro gli altri. I primi affrontano il gioco come fosse l’uncinetto o un solitario. La presenza di un avversario è solo funzionale alle necessità di proseguimento dell’attività rilassante. Non sono granché interessati a vincere o perdere. I secondi sono attratti principalmente dalla misurazione delle proprie capacità personali. Tipicamente, costoro rifuggono dal comporre le famose parole inesistenti ma anzi cercano solo le parole lunghe e difficili, che premiano le capacità percettive. Studiano la tavola con le 16 lettere cercando strategie efficienti, pro bono scientiae. Affrontano i match come se si stessero applicando a un test di intelligenza. Avversario? Perché, c’è anche un avversario?

La categoria di coloro che “giocano contro” è la più numerosa. A costoro non interessa vincere bene o male: preferiscono fare un match di schifo e vincere piuttosto che inseguire l’eleganza di qualche parola difficile da trovare, e perdere. Al limite estremo di tale categoria ci sono quelli che imbrogliano, usando i software di risoluzione. È evidente che l’unico interesse per essi sta nello sconfiggere gli altri. Non imparano niente, non dimostrano niente né a sé stessi né gli antagonisti, non progrediscono in alcun modo: hanno solo il ruolo di interfaccia umana di algoritmi che non hanno contribuito a sviluppare. Dovrebbe essere avvilente, ma non se ne rendono conto. In effetti, un’abilità ce l’hanno: quella di saper mettere in opera le procedure di copia_incolla necessarie all’imbroglio, cioè la soddisfazione personale di saper rendere operativa la propria furbizia.

Inutile dire che sia sotto il profilo psicologico individuale che quello sociale, gli imbroglioni rappresentano la comunità più interessante da studiare.

Diciamo subito che vincere a Ruzzle non comporta vantaggi oggettivi di sorta: in palio non ci sono soldi, premi, riconoscimenti, sorrisi del papa. Un qualunque premio darebbe un senso ovvio all’esistenza degli imbroglioni. Invece no. Premesso questo, possiamo ipotizzare cosa succede nella mente e nell’ego dell’imbroglione, perché tragga soddisfazione dal suo modo di agire. Egli deve poter percepire l’imbroglio come una forma di auto-affermazione, del tipo “te l’ho fatta“. Deve anche, contemporaneamente, percepire la sconfitta come una significativa minaccia alla propria autostima e – forse, in base a un ragionamento proiettivo sugli altri giocatori – anche come minaccia alla stima ricevuta dall’esterno. Al di là della soddisfazione dell’imbroglio, potrebbe sussistere anche quella per la vittoria. Ciò rappresenta una condizione mentale ancora più grave, perché richiede di mentire a sé stessi. Un po’ come i bambini quando e se credono di essere lo sceriffo del West. Solo che i bimbi sanno di non esserlo veramente. Quindi qui ci troviamo di fronte ad adulti il cui bisogno di autostima e stima ricevuta è così impellente da farli mentire a sé stessi rispetto alla realtà evidente – a loro per primi – dei fatti.

I siti internet sono pieni di informazioni sui software per imbrogliare, che sono gratuiti. Allora mi domando che cosa, al di là della soddisfazione dei programmatori, possa spingere tutta questa pubblicità dei software, se non un’ampia domanda. Il significato è che imbrogliare è socialmente accettato: entra a far parte di un altro gioco. I veri antagonisti degli imbroglioni sistematici sono quindi i loro pari, tra i quali resta solo da stabilire chi imbroglia meglio. A questo punto, si sposta non solo il piano di definizione di “successo”, ma anche la capacità psicologica di subire una sconfitta, che deve tornare su di un piano di normalità.

Dal punto di vista sociale, nello stesso ambito d’azione abbiamo perciò diverse categorie di operatori: i giocatori onesti, gli imbroglioni occasionali e quelli sistematici. I secondi sono quelli psicologicamente più fragili e – come si è detto – a rischio di patologia, qualora arrivino a credere di essere vincitori autentici.

Nel corso delle mie sinora poche partite ho incontrato un paio di imbroglioni occasionali, mentre nella classifica nazionale, disponibile a tutti, sono elencati quelli sistematici.

Sempre in prospettiva sociale e non più individuale, mi domando cosa significhi l’esistenza di tanti imbroglioni in un segmento di gioco assolutamente non premiante. Non so perché, mi viene in mente il titolo di un vecchio film: La caduta dell’Impero Romano. Certo è che lo Zen sta da qualche altra parte, non qui.

A proposito di Zen: qualcuno forse da un certo punto del post in poi si è chiesto com’è finita con la ggiovane che mi aveva mandato il messaggino di presa in giro. Questo qualcuno evidentemente non mi conosce bene. L’ho stracciata all’ultimo turno, poi le ho risposto: “Hei a te, perdente!”.

Indovinate? Non mi ha chiesto la rivincita.

Sì, lo so: il mio Zen di frequente si prende un’ora di permesso. 🙂

4 comments

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  • Quando il modello politico e sociale di riferimento è il risultato di un’accozzaglia di bugiardi imbroglioni e truffatori, che barano a qualsiasi gioco, pur di vincere, c’è da aspettarsi un paese con sudditi imbroglioni anch’essi ad ogni occasione, pure nel fare il solitario. Come dicono i napoletani: ‘o pesce fète semp’ d’ ‘a capa!

  • Aggiornamento. Apprendo dai media che ai campionati italiani, dove si sono iscritte 70.000 persone, 1.630 sono state squalificate perché imbrogliavano, usando uno o più di 23 software di cheating.
    Maglia nera ai napoletani: 159 squalificati.

SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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