Wing chun – Discours de la méthode

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Mi dicono che i maestri di tai chi, in Cina, non spiegano nulla: ti aggreghi ai praticanti e imiti quello che vedi fare. Quanto ne capisci, se e quando, sono affari solo tuoi.

La cosa suona molto mistico-romantica, come ogni percorso individuale verso l’illuminazione.

Gli orientali in genere, mi dicono e verifico, pensano che noi occidentali siamo degli inguaribili cretini. Per par condicio, io e altri troviamo estremamente cretini gli orientali in genere (alcuni in particolare). Trovo però alquanto cretini anche quegli occidentali che, potendo scegliere, si adattano a metodi che non si confanno al contesto culturale in cui sono cresciuti. Questo perché parte dell’Occidente (degli occidentali cretini) ha una “mistica dell’Oriente” che in Oriente – come ovvio – è del tutto sconosciuta. Sul punto è già stato detto tutto da Carlo Verdone con la sua macchietta del “ggiovane (impasticcato) che sta organizzando un viaggio misztigo in India”.

Fine della parentesi, torniamo agli allenamenti.

Imparare per imitazione è un tipico esempio di approccio induttivo: fai, senza sapere bene cosa e perché, finché prima o poi ti si chiariranno i princìpi che stanno alla base delle tue azioni. Lo possiamo persino chiamare metodo auto-induttivo, perché non riceve suggerimenti o istruzioni dall’esterno.

Un metodo più semplicemente induttivo è quello in cui il maestro ti spiega la tecnica dei singoli movimenti, lasciando però nel vago l’idea sintetica di fondo.

Secondo la mia esperienza personale, è quel che accade/eva nel karate, quando un maestro fortissimo atleta (Beppe Formenton) mi illustrava nel dettaglio tutti i come ma nessun vero perché.

Recentemente sono l’oggetto di un metodo alternativo, fortemente assiomatico e quindi deduttivo.

Il metodo assiomatico si fonda su princìpi stampati a lettere di fuoco all’ingresso della Scuola, che informano tutti i contenuti tecnici. Il mio maestro (Luigi Rossi) batte e ribatte sui princìpi e li illustra in ogni singolo movimento. Si può vedere la cosa anche sotto un punto di vista alternativo, tipico della Meccanica Razionale: esiste una serie di vincoli (in questo caso, i princìpi) che limitano le possibilità di movimento; quest’ultimo perciò si considera giusto e approvato solo se non contraddice alcuno dei princìpi.

Dove prima i princìpi del karate non li vedevo affatto, ora quelli del wing chun li vedo in continuazione e mi forniscono una guida operativa costante. È un miglioramento didattico importante. La mia critica ad altre scuole di wing chun è proprio questa: enunciano dei princìpi che poi non vengono applicati sistematicamente o solo parzialmente. La soluzione che va bene qui non va bene là e gli insegnanti si inventano un numero di eccezioni e distinguo spesso superiore al numero di “regole”.

Ma anche un metodo genericamente deduttivo contiene dei rischi. Il più grave è limitare lo studio ai particolari tecnici perdendo di vista la finalità generale.

Apriamo una parentesi correlata al discorso.

I manuali unversitari italiani sono terrificanti (parlo per quel che conosco: Fisica, Economia, Statistica). Partono tutti da assiomi. Ti devi imparare liste lunghissime di regole e teoremi che non capisci a che servono e, dopo che le hai imparate tutte, pian piano le applichi. Secondo me, la ragione per cui i cervelli italiani sono tanto apprezzati all’estero deriva dalla selezione naturale che si sviluppa in chi studia in Italia: solo un vero genio può uscire da una materia padroneggiandola, visto che l’ha imparata senza sapere perché. Ha fatto da solo – e probabilmente per disperato bisogno di riempire i gap logici – il lavoraccio che altrove fanno i manuali stessi per te.

I manuali americani sono già un altro pianeta: ti dicono cosa stanno per spiegare, cosa stanno spiegando, cosa ti spiegheranno alla pagina successiva, cosa ti hanno appena spiegato. Sono a prova di deficiente (doveroso, visto il numero di minorati mentali che gira da quelle parti), però così i nessi logici ti entrano in zucca anche se non vuoi. Manca ancora un po’ una visione pratica, ma ora ci arriviamo.

I manuali russi sono concreti: partono da un problema pratico, lo sviscerano e poi inducono le regole generali. Questo, ad esempio, è il modo in cui i russi imparano a giocare a scacchi. Giocano e sbagliano, giocano e sbagliano, finché qualcuno ricava dagli errori una regola per minimizzarli. I russi sono innanzitutto pratici. Proprio partendo dalla pratica diventano poi creativi.

Il manuale che mi è piaciuto di più era francese. Esponeva un problema concreto, facilmente comprensibile, quotidiano. Poi ti diceva: “Ehi, bello! Per risolvere il problema di cui ti ho parlato, ci servono alcuni strumenti, che ora passo a descriverti e spiegarti”. Così capivi, da un esempio che già avevi intuitivamente compreso di per sé, perché quei particolari strumenti erano utili. Per tutto il libro seguivi le dimostrazioni di cui già a pagina 1 avevi capito l’importanza. Ovvio fosse più semplice memorizzarle, no?

Il mio controesempio preferito è l’esame di Analisi II fatto a Fisica. Mi sono dovuto studiare tutta l’algebra lineare, tutta la teoria della misura, tutto non mi ricordo cos’altro per applicarli all’ultimo problema del corso. In quelle ultime pagine di studio mi si accendeva una lampadina in testa ogni 5 minuti e suonavano a festa le campane: finalmente, dopo 300 pagine, capivo a cosa servissero tutte le minchiate studiate con difficoltà e spaesamento sino ad allora! Emozionante, ma inutilmente faticoso.

Finita la parentesi, torniamo al mio wing chun. Mi domando: non sarebbe meglio un metodo didattico che mostrasse subito qual è il risultato dell’applicazione di tutti i princìpi? Fai un discorsetto all’allievo e gli dici a voce cosa c’è di diverso tra quello che può aver fatto in altre arti marziali e quello che sta per iniziare a fare (descrizione assiomatica, all’italiana). Poi glielo mostri, vale a dire gli mostri l’applicazione da maestro dei princìpi (risultato finale). Poi lo fai provare a muoversi come deve. Sbaglierà (come i russi). Allora gli mostri che quello che sta facendo non è secondo i principi e gli mostri anche perché è più conveniente adottare questi ultimi. A questo punto avrà capito a cosa serve – veramente e senza fronzoli – quello che gli insegni (alla francese).

Stamattina mi è capitato proprio questo. Con allievi cui erano già stati spiegati nel tempo e in dettaglio i princìpi di movimento, finalizzazione e gestione corporea abbiamo fatto una specie di combattimento libero. A tutti è stata data la medesima opportunità che ho avuto io: combattere tra allievi e poi farlo con il sifu. Così si rendevano conto della differenza tra l’avere di fronte un altro allievo e cosa vuol dire invece fronteggiare qualcuno che non ti offre appigli, punti deboli, esitazioni, rigidità. La lezione consisteva nel fatto che l’assenza di appigli e punti deboli del sifu era dovuta proprio alla corretta applicazione dei princìpi. Così ciascun praticante si è reso conto immediatamente, dal vivo e con possibilità immediata di comparazione, perché è opportuno adottare i princìpi, come questi sono in correlazione gli uni con gli altri e si compongono in un singolo movimento, quali sono gli inconvenienti cui si va incontro se uno o più di questi princìpi non vengono adottati, quali sono le cause analitiche degli errori.

Avevano cioè l’esempio perfetto e finale dell’arte (i movimenti del sifu) da comparare immediatamente e sensorialmente con la loro pratica imperfetta. Guardando il sifu, tutto tornava come dovrebbe tornare e per le ragioni che gli sono state spiegate mille volte. Vedendo se stessi, avevano la controprova che muovendosi diversamente le cose non tornavano. Ma c’era piena corrispondenza tra cause (princìpi non applicati) ed effetti (situazioni di svantaggio). Ogni svantaggio rimandava a/alle causa/e che lo aveva/no provocato. Tutto era riconoscibile, immediatamente. I princìpi assumevano perciò una validità per nulla teorica e fideistica, bensì pratica e operativa.

Naturalmente, ciò presuppone che l’allievo conosca i princìpi, li abbia in una certa misura interiorizzati come sue “guide di movimento” e che sappia riconoscere quando li esegue correttamente. Ma credo che l’esperienza sulla propria pelle della visione sintetica (= finale, di combattimento) del prodotto e della sua validità sia lo stimolo più potente che ci sia per indirizzare il praticante al superamento delle proprie carenze tecniche.

Un piano didattico si dovrebbe quindi avvalere del costante esempio del sifu, da sovrapporre alla pratica dell’allievo perché questi possa verificare la “distanza” tra quello che fa e quanto dovrebbe fare. L’allievo deve sempre poter attingere all’esperienza finale, per riferimento.

I singoli princìpi, presentati nell’esperienza sintetica offerta dal sifu, vengono riconosciuti per il loro contributo effettivo e non in base a un atto di fede.

Dopodiché il movimento complessivo va scomposto nelle singole tecniche, cioè parzializzato, ma solo dopo che lo si è visto intero. (Ditemi un po’: preferite vedere un motore intero che poi vi smontano soto gli occhi, o i pezzi dello stesso motore sparsi sul pavimento? In quale dei due casi capite di più e meglio a che serve davvero tutta quella ferraglia?).

Tutto ciò si configura in maniera totalmente opposta alla metodica “orientale”. Non me ne stupisco. Anzi, me ne compiaccio.

Due piccole note conclusive.

Molti anni fa mio fratello è stato oggetto di un esperimento interessante: a scuola, la storia gli veniva insegnata “a rovescio”, dagli avvenimenti più recenti a quelli più antichi. In pratica gli venivano mostrate prima le conseguenze e il percorso a ritroso serviva a cercarne le cause. Scomposizione degli effetti.

I formatori più avveduti, quando presentano le slide, in un piccolo riquadro riassuntivo evidenziano sempre dove la slide attualmente in primo piano si collochi nell’insieme. Come il particolare si inserisce nel quadro generale.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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