Perché a Venezia

P

Questo è un blog, cioè un diario, e come tutti i diari non necessariamente deve sempre avere una valenza esterna. Quindi, ora devo e voglio raccontare un fatto personale.

Quando, un mese fa, mi hanno scritto per invitarmi alla cena di classe, non ho avuto bisogno di pensarci su. Mi sono però chiesto come mai il mio “sì” fosse così immediato e da quel momento l’unica cosa che avessi cominciato a temere era che l’iniziativa potesse essere cancellata, differita, ridotta. Perché? Sarei stato disposto ad andare anche fossimo stati solo cinque o sei. Perché? Alla fine, eravamo trentuno. In tanti hanno risposto all’appello, a quarant’anni di distanza. Perché? In molti si sono dati da fare perché a quei trentuno e ai pochi altri che poi non sono venuti fosse data l’opportunità. Si è telefonato, fatto ricerche su internet, ci si è mossi a volte con sicurezza e altre a caso, ma sempre con feroce determinazione. Perché?

Ho detto LA cena di classe. In vita mia non ho certo frequentato una sola classe, ma quella è stata LA classe. Perché? Erano tutti simpatici, amici miei, mi hanno riservato a suo tempo un trattamento speciale? No. Ero io a essere particolarmente simpatico, gentile, benvoluto? No. E allora? Perché quella classe sì, e tutte le altre no?

Dopo cena, abbiamo girato per Venezia, lasciando a tratti qualcuno per strada, quando si arrivava davanti a casa sua. Alle due e mezzo di notte sono stato scortato sino al mio lontanissimo albergo da due compagni che abitavano dall’altra parte della città. Perché?

Perché.

Le risposte non le ho trovate da solo. Mi hanno aiutato due compagni. Uno per quello che ha scritto: “…Siete arrivati voi e c’è di nuovo qualcuno che mi conosce…che sa dirmi dove sto di casa…”. Le sue parole rendono perfettamente come mi sono sentito: riconosciuto.

Ma non per quello che ero (ero uno stronzetto saputello, e il primo a esserne consapevole), bensì per quello che potevo essere.

E qui, come in un gioco di specchi, mi ha aiutato un altro compagno. Quarant’anni fa, era un simpatico e affascinante monello, di quelli che le mamme dei bravi ragazzi non vogliono neanche vedere ma i loro figli guardano con un po’ d’invidia e molta ammirazione. Io, bravissimo ragazzo, primo della classe e inguaribile rompicoglioni capoclasse, gli avevo dato fiducia. Non per quello che mostrava, ma per quello che intuivo ci fosse dietro. E l’altra sera ho visto di non essermi sbagliato, a suo tempo. E allora, finalmente, ho capito.

Si chiama credito. Venerdì, e per tutto il mese che ha preceduto la cena, trentuno persone si sono trovate a darsi reciproco credito. Per tutto ciò che ciascuno si sentiva di essere o davvero era a tredici anni e per quel che sarebbe diventato. Non parlo di carriere, successi, svolte nella vita, ma di pure e semplici persone. Un credito nato 40 anni fa, senz’altro favorito da un’ingenuità da tredicenni, ma forse proprio per questo più disinteressato e puro. Senza saperlo, senza pensarci, 40 anni fa ciascuno di noi ha aperto una linea di credito a favore dei compagni.

Quando ci siamo contattati e poi visti, ci siamo riconosciuti e nessuno si è sognato di montare in testa a nessun altro.

Perché? Perché tra noi c’è stato, c’è e ora sappiamo con certezza che sempre ci sarà, rispetto.

La sezione D (’70-’73) della Francesco Morosini, San Stae, Venezia, era fatta di gente che si rispetta reciprocamente.

Vi pare poco? A me no.

Per questo vi ringrazio, uno per uno.

4 comments

Rispondi a Alberto La Greca Cancel reply

  • Grazie Edoardo, le tue parole mi riempiono di gioia e serenità, non posso e non riesco aggiungere altro, hai detto tutto.
    A presto.

    Giordano

  • Penso che identità e rispetto siano alimenti o meglio aminoacidi essenziali per la crescita dell’anima, con questo pensiero mi addormenterò tra poco…

  • Caro Edoardo, ancora una volta mi dai la possibilità di rielaborare ( copiare ;-))) un tuo compito.
    Credo che venerdì sia stata una formidabile situazione in cui trenta ragazzini avevano una rara occasione per osservarsi dall’esterno cogliendo qualche fuggevole istante della proprie esistenze ed affermando le proprie identità.
    Il gioco degli specchi rompeva anche il fluire unidirezionale del tempo e nel caos dei ricordi bastava incrociare gli sguardi per ritrovare sicurezza e reciproco rispetto

    Sarebbe difficile ripetere questa magia, siamo ormai troppo condizionati dai vincoli esterni per riuscire a liberare la mente ed esprimere con gioia e spontaneità le nostre personalità.

    Un abbraccio

  • Alberto le magie possono ritornare dipende da quanto si è disposti a “rimettersi
    in gioco” senza bleffare come quel venerdì appunto…

SU DI ME

SONO EDOARDO, NATO A TRIESTE NEL 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. CONTINUA...

PUOI TROVARMI ANCHE QUI