Per una nuova politica

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terza-viaEvidenze

Il voto referendario, nel numero di votanti e nelle sue espressioni, segnala alcuni fenomeni.

  • Dopo anni di disinteresse per la politica, i cittadini mostrano un nuovo interesse, motivato per lo più da gravi e urgenti problemi a livello individuale (focalizzati sull’occupazione e il potere di acquisto) piuttosto che da ragioni di ideologia.
  • L’incapacità della politica di fornire risposte serie allo spaesamento di molte classi economico-sociali rende il voto innanzitutto di protesta, rispetto: alla mancanza di risoluzione dei problemi, alla sensazione di sostanziale scollamento degli interessi della classe politica (la casta) rispetto a quelli del Paese.
  • La “corsa alle urne” ha dimostrato che i cittadini colgono ogni possibile occasione per farsi sentire, testimoniando l’urgenza e la gravità della situazione.
  • Che la percezione del polso del Paese sia scarsa, lo dimostra lo stupore del fronte del NO rispetto alla dimensione della vittoria. È come aver vinto una gara di nuoto perché mentre annaspavamo un delfino inatteso ci ha caricato in groppa. Il delfino c’era, ma nessuno ha saputo vederlo. Questo è grave, perché in un futuro le parti potrebbero invertirsi.

Ulteriori considerazioni

Alcuni votanti per il SI in realtà hanno espresso un voto di protesta, in relazione ai costi della politica (abolizione CNEL e riduzione dei senatori), oltre al generico desiderio di voglia di cambiamento. Ha votato così chi ha colto solo il messaggio letterale della proposta, commettendo cioè un errore di ingenuità interpretativa, in buona fede.

Il NO italiano si inserisce in un più generale contesto di fenomeni recenti: innanzitutto le elezioni USA, prima i movimenti di piazza greci, poi la Brexit, poi le tensioni in Francia che hanno spinto Hollande a non ricandidarsi. Il significato è che il voto di protesta da un lato si fa sempre più forte e agguerrito anche nei modi, dall’altra che l’establishment non è in grado di prevederlo.

Problemi

Nonostante – secondo l’Istituto Cattaneo – il voto sia stato per il 66% di protesta, bisogna capire verso cosa e chi ne è imputabile. I grandi temi sul tavolo sono lavoro, UE, euro, finanza internazionale, globalizzazione, immigrazione, banche italiane, debito pubblico, rilancio produttivo, investimenti, scuola e sanità. Tali punti presentano diverse forme di vincolo alla loro risoluzione e l’atteggiamento di facile ottimismo mostrato dal governo è parte della percezione di imbroglio da parte dei cittadini. Se la coperta delle risorse è corta e la si tira di qua e di là, non è che la gente crede sia più lunga: osserva solo i goffi tentativi di farla ritenere tale.

Il governo ha piena responsabilità nell’ “imbroglio”, non ha tutte le responsabilità per la situazione: ci sono problemi che avrebbero affossato qualunque governo e a Renzi va persino riconosciuto qualche merito nell’aver tentato qualche spallata, almeno in Europa. Attribuire tutte le colpe a Renzi significa, in ultima analisi, nascondere ancora una volta la testa sotto la sabbia, perché procura l’illusione che cambiato il governo i problemi possano magicamente scomparire, mentre sono strutturali e non tutti a base nazionale. In particolare la speculazione finanziaria, l’immigrazione, le clausole UE, la globalizzazione volano sopra la testa di ogni nazione, non sotto.

Le risposte del sistema politico sono miopi, o per analisi parziali (la coperta resta sempre corta) o per mancanza di un qualunque programma che vada oltre la protesta. Ci spingiamo a dire che la crisi è mondiale e di sistema economico, il che si trasforma subito in disagio psicologico e sociale (lo spiazzamento descritto da Bauman). Non vogliamo volare inutilmente alto e concludere con lo slogan anni ’70 “è colpa della società”, ma viste le interrelazioni palesi dell’attuale Sistema Mondo (dalle fonti energetiche al commercio, dall’inquinamento ai rifugiati alla progressiva omologazione dei gusti e quindi permeabilità dei mercati), non si può pensare di affrontare le cose come se l’Italia o persino l’Europa fossero delle isole.

Strumenti

Anche solo fermandoci all’Italia, che in questo è considerata un Paese arretrato, gli strumenti di comunicazione e formazione delle opinioni sono molto cambiati, non solo sotto il profilo teorico dell’osservazione di costume, bensì delle conseguenze concrete. Gli esempi del referendum, delle elezioni USA, della Turchia dopo piazza Taksim sono lampanti.

La classe dirigente – mai così culturalmente povera come oggi – sembra non averlo capito, racchiusa in un sistema di comunicazione interno a sé stessa che, quando esce dalle Stanze, la fa esprimere come l’Azzeccagarbugli.

Il commenti del dopo-voto hanno sottolineato la cosa in misura eclatante. Sentir parlare Bersani e il sottosegretario PD all’economia da una parte e Landini (FIOM) e il M5S dall’altra era surreale.

Io chiedo a ciascuno di farsi in privato un esame di coscienza: quanti blog privati di opinione frequentate? Leggete twitter? Perché, che ognuno di noi li frequenti o no, la gente lo fa. E il suo linguaggio si modifica. Dire che si tratti – spesso – di un linguaggio semplicistico può essere vero ma è irrilevante e controproducente: o si parla e risponde alla gente dove e come questa fa le domande, e casomai si cerca in quella sede di accrescerne la consapevolezza, oppure si resta indietro e il mondo – che esso ci piaccia o meno – va avanti lo stesso, e noi “saremo leggenda” (Matheson). Non è del tutto un caso se il M5S continua a crescere: non è solo la focalizzazione di una protesta, ma anche il modo di metterne in comunicazione le voci.

Proposte

Serve un modo completamente nuovo di fare politica, che va dalla fissazione degli obiettivi al modo di perseguirli, agli strumenti con cui comunicare e confrontarsi.

Per quanto detto sinora, la prima cosa occorrente per una nuova cultura politica è l’onestà intellettuale, verso di sé e verso l’esterno (chi ascolta). Significa smettere di raccontarsi balle e raccontarle agli altri. Significa anche aggiungere un certo grado di umiltà al nostro operato. Vuoi il potere per il potere? Dillo. Se non lo dici, gli altri se ne accorgono. Se anche uno solo se ne accorge, in capo a due ore lo sa anche la Nuova Zelanda. Credi di avere tutti gli strumenti di comunicazione? Verifica: tuo figlio o tuo nipote ti potrebbero dimostrare che non li hai. Non promettere quanto non puoi mantenere, sperando che la gente ci caschi: in questo periodo storico, la gente è ultra-sensibile alle promesse non onorate. Se vuoi qualcosa dagli altri, dai l’esempio: metti a disposizione qualcosa di tuo, gratis (si hanno troppi fondati sospetti che molti trombati vogliano rimettersi in carreggiata a spese altrui).

Esempio: il M5S, con tutti i problemi che ha[1], qualcosa ha mostrato. I loro stipendi sono effettivamente ridotti, c’è speranza che non si ricandidino per una terza legislatura (non perché sia un bene, ma perché l’hanno promesso). Ha un sistema di comunicazione interno ed esterno che veicola messaggi “poveri” (di contenuto) ma che come strumento funziona. Spinge in direzione di una totale trasparenza dell’amministrazione – di ogni livello – rispetto ai propri atti, con conseguente assunzione di precise responsabilità.

I princìpi descritti sopra somigliano a una sorta di prontuario del buon chierichetto, o al manuale del boy scout che aiuta la vecchina. È vero, infatti sono princìpi etici. Ma non sono ingenui, né calati dall’alto, bensì frutto dell’esperienza su tutto quanto non ha funzionato e la gente invece vuole. La critica al Sistema – del resto – non è fatta di continui richiami al mancato rispetto di banali princìpi etici? E i giovani – cui diciamo di volerci rivolgere, anche se il nostro sembra più un mantra che una convinzione – non sono forse l’unico serbatoio naturale di etica? Prima che si rovinino, beninteso; prima che comincino a ragionare come da decenni ragioniamo noi.

Non voglio una nuova Epoca dell’Acquario o un’altra stagione da figli dei fiori: sono ateo, cinico e corazzato. Ma osservo semplicemente che un certo fare e un certo pensare stanno giungendo al capolinea, a causa di quello che hanno prodotto ed è sotto gli occhi del mondo intero.

A rafforzare questa linea di pensiero c’è anche un’altra considerazione. Fino a non molti anni fa, lo scontro tra ideologie permetteva di mettere le parole davanti ai fatti: si discuteva di massimi sistemi, e la celebre “dialettica” era lo strumento principe per stabilire chi avesse ragione e chi torto, sulla carta. Una delle catastrofi del XX secolo è stata per l’appunto l’apertura illimitata di credito ideologico, che differiva all’infinito il momento della prova dei fatti, così che nei cenacoli si continuava a disquisire sul miglior sistema di società e di governo, mentre nel mondo drammatiche realtà dimostravano ogni giorno che quei sistemi non funzionavano. Il tramonto delle ideologie ha mostrato l’insufficienza del piano teorico di dibattito e contemporaneamente una serie infinita di accadimenti mondiali ha suscitato nuove necessità e urgenze concrete. Ci si è trovati quindi a non aver concluso nulla sul piano teoretico, mentre i problemi pratici divenivano più gravosi e globali. In una parola: il tempo delle chiacchiere non può continuare, perché per le chiacchiere non c’è più tempo. Chi da qualche parte non ha da mangiare ora viene da noi, dove trova altra gente che comincia anch’essa a non aver più da mangiare: li vuoi impegnare in un dibattito sulla supremazia del socialismo sul liberalismo o viceversa? La classe dirigente “vecchia” si è formata su basi ideologiche – e non sa esprimersi altrimenti, letteralmente, tant’è che non dice nulla – e i “nuovi” non sono che delfini dei vecchi, senza nemmeno lo spessore – ormai inutilizzabile – dei primi. Non è per caso che la gente guarda con interesse a modi di porsi e di fare politica completamente diversi e nuovi, per quanto carenti e parziali possano essere.

Un nuovo progetto politico deve perciò basarsi su un’onesta disamina dei problemi da risolvere e sulle loro interconnessioni. Successivamente, su una prioritizzazione dei medesimi: probabilmente quelli più gravi saranno quelli più difficili da risolvere, e in più tempo. Alcuni non saranno risolvibili rebus sic stantibus, per cui servirà anche il coraggio di mettere in discussioni alcune relazioni istituzionali sovranazionali e provvedere a forme di protezione della sovranità (politica, economica, finanziaria). Dovrà essere instaurata una buona prassi di trasparenza, innanzitutto nei ragionamenti, in modo da consentirne la verifica e la falsificabilità (Kuhn, Popper).

Tutto ciò significa che il metodo diviene più importante del punto ideologico-politico da cui si parte: la gente non vuole necessariamente chi la pensa come lei, ma chi ha un metodo che permette di discutere delle conclusioni logiche [2].

Alternative?

Che si scelga questa strada o meno, lo scenario atteso è comunque l’analisi in prima persona di problemi su piattaforme non istituzionalizzate, e l’aggregazione delle opinioni in base ai commentatori più arguti, completi, “onesti”. Nel bene e nel male, queste analisi e aggregazioni hanno la caratteristica di formare fronti d’opinione in tempi molto veloci, perché sono attive 24/7 e casomai il loro punto debole è l’eccesso di informazione (non controllata). Questo è il mondo di molti che hanno votato al referendum, ed è il mondo dei nostri figli. Affrontare questo mondo, peraltro in continua e veloce evoluzione nella direzione ora detta, con gli strumenti cui siamo abituati è perdente.

Sempre nello scenario generale c’è una progressiva aggregazione dei problemi, cioè della loro percezione sempre più “integrata”, che fa perfettamente scopa con il bisogno di capire (si è detto sopra che le comprensioni solo settoriali sono fuorvianti). Le menti più brillanti e – perché no – quelle che vogliono far pesare e magari sfruttare il proprio vantaggio informativo, sfrutteranno la velocità di aggregazione “non costosa” ai propri fini, che possono essere tanto nobili che no.

Conclusioni

Senza voler essere catastrofisti, la situazione è grave sia a livello nazionale che globale. Come dicono i meteorologi: in peggioramento. Da qualche parte si cominciano a sentire voci che riconoscono che “la globalizzazione va ripensata: quella nella forma attuale non è poi la gran cosa che pensavamo”. L’Europa scricchiola, e a buon motivo. Gli stessi allarmi possono essere estesi all’immigrazione, alla finanza speculativa, alla continua limatura dello stato sociale.

La gente è in crisi oggi, figuriamoci domani. Qualcuno tenta strade alternative. Quelle dirigistico-dittatoriali non sono da escludersi, ma la Storia prova che hanno vita limitata. Restano quelle democratiche, che di nuovo hanno un’etica di fondo e gli strumenti di aggregazione delle idee. Tutto ciò, in attesa compaia eventualmente un nuovo Messia con tutte le risposte, è inevitabile.

Da capire resta solo dove ci si voglia collocare, se dentro o fuori un rinnovamento strutturale e sostanziale. Si può anche tergiversare, tirarsi fuori del tutto e impugnare la canna da pesca. Ma sarebbe vita, questa?

 

[1] Non esiste un programma perché non esiste il logical framework obiettivi <- risorse. Il successo del M5S dipende dall’aver capito l’idea di Bauman, con un tentativo di risposta alla catena oikìa-agorà-eklèsia.

[2][2] Strano o no, quest’impostazione è stata al centro dell’interesse politico alla fine degli anni ’90, salvo poi cadere in disuso per resistenze sia del mondo politico che amministrativo.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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