Negro e Recchione

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E’ morto Lucio Dalla e mi dispiace. Per ognuno di quelli cui dispiace rappresentava qualcosa, anche se quasi certamente qualcosa di diverso per ciascuno. Per me – pensa un po’ – era una specie di sovversivo potenziale, di quelli che ti trovi nel quartier generale della Rivoluzione Rossa, con le liste di proscrizione in mano. Tutta una mia fantasia, probabilmente, dovuta alla mia difficoltà di inquadrarlo già nei primi anni ’60. Non importa: è morto e mi dispiace. Ha scritto e cantato cose per me bellissime. Alcune: altre erano puttanate inascoltabili, ma quelle belle erano belle e destinate a restare.

Dalla era frocio. Bene: lo sospettavo da decenni, da quando aveva fatto comunella con Ron (Rosalino Cellamare) e gli amici mi avevano detto che erano entrambi recchioni. Di mio, non me ne sarei mai accorto, né dell’uno né dell’altro. Questo perché non me ne frega(va) niente di niente.

Io sono a volte molto astuto e malpensante, altre volte scemo come lo scemo del villaggio: se una cosa non attira la mia attenzione analitica, il mio gusto per le domande, lo scemo del villaggio mi dà una pista. Che Dalla e Ron fossero recchioni o meno non ha mai suscitato il mio desiderio di approfondire.

Dalla non era negro, ma poteva esserlo. In quel caso, l’avrei chiamato negro. Negro e recchione. Mi hanno spiegato, anni fa, che “recchione” è una varietà speciale degli omosessuali (i froci). Non mi ricordo esattamente, ma ha a che fare con i giovani. Per me, recchione è una parola divertente e basta. Me la ricordo da un giocoliere ambulante e meridionale in piazza del Duomo, a Milano. Facendo i suoi numeri, si rivolgeva al pubblico chiamando tutti “ricchiò”. Mi è rimasto impresso, tutto qua.

Questo post non è su Dalla, sui negri o sui recchioni. È un post sul diritto ad esprimersi come ci pare, purché ci sia buona fede. Con mio figlio, quando siamo di buon umore (ora è più raro, perché lui è adolescente e ha le madonne ogni 5 minuti), ci chiamiamo “recchione” l’uno con l’altro. Cosa significa? NIENTE. Ficcatevelo in testa: non significa NIENTE. Lui – mio figlio – ha un rispetto esagerato per tutte le forme di emarginazione (bravo, sono contento), io non ho niente di niente contro gli omosessuali (sono sempre piaciuto parecchio e in vari modi, ai froci). Ci chiamiamo recchioni come forma di sfottò, SLEGATA dalle nostre rispettive convinzioni. Se si guarda bene, è una forma di ironia piuttosto sofisticata, perché è di secondo o addirittura terzo livello. Implica buona fede e serenità d’animo e di giudizio a tutti i livelli. Garantisco per me e per mio figlio.

Ora voglio proprio vedere chi ha qualcosa da dire. Prima gli sparo in bocca, poi gli chiedo quale problema abbia LUI.

 

L’altro giorno c’era un film in TV: “Ogni cosa è illuminata”. L’ebreo Elija Wood dice alla sua guida ucraina che non si deve dire “negro”, a proposito di Michael Jackson. L’ucraino lo guarda stupito e gli fa: “Perché? Essere negro mica è una brutta cosa!”.

Io rivendico esattamente la stessa logica, la stessa ingenuità, lo stesso diritto del ragazzo ucraino.

Da 20 anni sento di “operatori ecologici” “non vedenti” e “diversamente abili”. Un cazzo. Gli operatori ecologici spazzano le strade come prima, i non vedenti sono ciechi, i diversamente abili la loro diversa abilità non la vuole nessuno, perché hanno problemi seri a fare qualcosa. Non sono diversamente abili: non sono abili per niente.

Non è come chiami una cosa, è come la consideri.

Ora salterà su quello cui sto per sparare in bocca, dicendo “est iniuria verbis”. Un paio di coglioni: se VOI mettete ingiuria nelle parole, non guardate me. C’è molta più ipocrisia nel voler nascondere che nell’usare termini senza un portato semantico denigratorio. C’è molta più falsità nel forzarsi a considerare uguale uno che all’aspetto (o nell’abilità) con tutta evidenza non lo è, piuttosto che a considerare la sua diversità come un dato di fatto e di là si va avanti.

Sai quanto me ne frega a me se uno è negro? Niente di niente. Non ho modo di ferirlo, chiamandolo negro, perché per me non è un’offesa. Idem giallo. Non lo valuto per il colore della pelle, ma vedo che ha un colore diverso dal mio. Perché dovrei far finta di non vederlo?

Idem per i froci. Ok: frocio ha un senso dispregiativo, specialmente tra i medesimi. Lo uso apposta, come provocazione. Perché sono un po’ oltre anche in questo: uso un termine dispregiativo perché per me neanche in questo termine c’è alcunché di spregiativo.

Non lo capite? Problemi VOSTRI.

Ma se venite a rompermi i coglioni, mettendo in dubbio la mia buona fede, vi sparo in bocca.

L’unico, vero problema è l’ottusità. Se vi mostrate ottusi vi apro la testa con l’accetta, come giustamente fece il pompiere di R. L. Stevenson (“Il pompiere e l’ammalato”, in Favola crudele).

Non mi credete? Cominciate a guardare dentro voi stessi, allora.

3 comments

  • Peraltro, l’uso dell’eufemismo, introdotto con ogni evidenza da chi veramente percepisce il termine corretto (cieco, sordo, paralitico) come uno spregiativo (a rimarcare, coprendolo, il proprio senso di colpa e palesando così la natura ipocrita del proprio essere), costringe a una rincorsa senza fine a nuovi eufemismi.
    Nel tempo ci siamo bruciati “handicap” (ou, ma ti xè andicapà?), “videolesi” (pare un televisore malfunzionante), disabile e molti altri, via via che i termini diventavano pietre da lanciare per scherno.
    D’altra parte questi neologismi , perchè tali sono, si prestano benissimo proprio per la loro astrusità ad essere riciclati come armi di offesa.
    L’eufemismo viene introdotto perchè il difetto fisico o mentale mette (molti) a disagio.
    Mi sa tanto che l’inconscio dell’ipocrita senta eco lontane,sepolte nell’archipallio, quelle, tanto per intenderci, che in altri animali inducono ad abbandonare i più deboli del gruppo al loro destino.
    Non so se tu sia stato frequentatore della spiaggia del Lido.
    Se lo eri, ricorderai che c’era una fascia, tra la zona “A” e lo stabilimento bagni di San Nicolò, proprio di fronte all’Ospedale al Mare, specificamente dedicato ai “mutilati”, con tanto di cartelli (“spiaggia riservata ai mutilati”) che delimitavano l’area e che, ero piccolo, ma ricordo bene la sensazione, parevano, più che il decreto di un loro diritto, un avvertimento per chi l’attraversava, un po’ come l’avviso che precede certe immagini, quando viene visualizzato “attenzione, la visione potrebbe urtare la vostra sensibilità” e, allo stesso tempo, uno steccato immaginario per gli stessi sfortunati utenti: non azzardatevi ad andare in giro con i vostri moncherini a spaventare i bambini e a disgustare la brava gente del Des Bains o dell’Excelsior.
    Anche i mestieri “umili” hanno subito la stessa riclassificazione.
    Un tempo spettavano alla gleba cenciosa e senza speranza di riscatto: non ricordateci quei musi neri, quei corpi puzzolenti, quei manifesti di degrado!
    Non mi risulta che quello del minatore, mestiere ben più faticoso, sporco e pericoloso dello spazzino, insomma, più schifoso, abbia subito sostituzioni. Guarda il caso, i minatori non sono esposti allo sguardo di alcuno.
    Un italianista, Cesare Marchi, diceva che ormai alcune categorie vengono individuate lessicalmente non per quello che sono o fanno ma per quello che non sono e non fanno: non vedenti, non udenti, non deambulanti, non docenti ecc.
    In definitiva, diamoci da fare perchè anche “diversamente abile” ha valicato il confine dell’ingiuria: diversamente alto al Cavaliere, diversamente bella alla Bindi, diversamente intelligente a Rotondi.
    Cercasi sostituto.

    PS: qui abbiamo sostituito “negro” con “nero”, chissà in Spagna come fanno.

  • A proposito, una delle più divertenti l’ho letta diversi anni fa.
    Ero in auto sul Terraglio in direzione Treviso.
    Davanti a me v’era un furgone con un braccio elevatore. Quest’ultimo portava alla sommità una pedana sulla quale lavoravano tre uomini in tuta bianca armati di motoseghe.
    Il loro compito era potare il filare di platani a lato strada.
    Il retro del mezzo portava un grande cartello bianco che portava la seguente scritta verde(in caratteri enormi): “Provincia di Treviso – EQUIPE DENDROCHIRURGICA”.
    Nonostante l’impegno, non sono riuscito a individuare il Primario.

SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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