L’Altalena (cap.9 “Termodinamica” -1)

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Cap. 9 – Termodinamica

Una particolare velocità…quale? Per il problema religioso non mi interessava saperlo, per quello fisico sì: il tempo del Mondo mi lasciava quasi indifferente, la supposta violazione dei principi della termodinamica molto (ma proprio molto) meno. Però c’era un sistema per scoprire le carte di entrambi gli enigmi: accelerare. Provando quante più ampiezze (e quindi velocità) possibili, avevo più probabilità di trovare quella giusta, quella alla quale cominciava a verificarsi il comportamento anomalo. E magari, se fossi stato fortunato, avrei scoperto che le due velocità coincidevano: l’anomalia poteva ben essere in corrispondenza del “tempo del Mondo”, no?

Dovevo quindi spingere di più, e per questo decisi di scendere dall’altalena. Ero un po’ stanco, un po’ accaldato, molto affamato. Inoltre la tenda era ancora dove l’avevo piantata, e la volevo più vicino: normale e paranoide diffidenza di cittadino. Dopo qualche minuto stavo scaldando la terza razione K della serie di dieci, e pensai fosse venuto il momento di pubblicare la notizia. Ma mi fermai con mezzo numero di Larson già digitato. Come la bufera, non mi accontentavo più di vincere: volevo stravincere. Una cosa era dirgli che avevo fatto un giretto sull’Altalena, un’altra buttar lì, come per caso, che ora anch’io mi muovevo al tempo del Mondo, giusto?

Ma il mio sogno segreto sarebbe stato potergli chiedere di chiamare la CNN, perché in un telegiornale trasmesso in tutto il globo si avvertissero miliardi di individui che i libri di Fisica erano da riscrivere. Sognavo, certo, ma dovevo verificare quanto.

Così non chiamai Lars, e onestamente di Ahmanov me ne fregavo. Avrebbe aspettato gli esiti del mio esperimento, altrimenti poteva tornarsene anche a Turgaj: in poche ore avrei avuto elicotteri, treni e navi disposti a venirmi a riprendere…

Alle tre del pomeriggio risalii sull’Altalena. Dopo poco si udirono i cupi rintocchi delle aste che vibravano, e per la seconda volta in quel giorno il mostro ripartì. Lo zaino-tenda riposava appoggiato ai tronchi. In previsione di una maggiore velocità avevo portato con me gli occhiali antisabbia e persino una felpa (anche se non avevo idea di come l’avrei indossata, in piena corsa).

Spingevo forte, spingevo duro. L’arco si ampliò: dieci metri, quindici, venti, trenta. Era ancora poco, pochissimo: l’angolo che formavo nell’oscillazione era di meno di venti gradi rispetto alla verticale. Qualunque bambino in qualunque giardino pubblico mi avrebbe riso dietro, non fosse stato per le dimensioni del mezzo su cui viaggiavo. Spinsi ancora. Cinquanta metri, sessanta, sessantacinque. Il vento sibilava tra le aste, ricordando il rumore della falce ne Il pozzo e il pendolo di Poe. Cominciavo a incontrare seria resistenza nell’aria, quindi indossai con qualche peripezia gli occhiali quasi ermetici. Avevo caldo per lo sforzo, ma durava un secondo: durante salita e discesa avevo più freddo di un ciclista in picchiata d’inverno giù per il Gran Sanbernardo. A mettermi la felpa, neanche a parlarne: non riuscivo a calcolare la mia velocità più di quanto potessi essere preciso nella misurazione dell’angolo tracciato, ma dovevo aver superato i cento all’ora. Cinque metri da terra mi sembravano dannatamente pochi, adesso che mi precipitavo giù tra sibili, fischi, e frastuono di vento nelle orecchie. Settanta metri, settantacinque, ottanta. Due giorni prima ero in una tempesta: adesso me la stavo creando da solo. Ottantacinque metri: oscillavo per quasi novanta gradi. Non era davvero molto, su un’altalena normale. Ma una cosa era ormai scolpita a lettere di fuoco dentro di me: Velikie Kacheli non era un’altalena normale. Ottantasei metri.

E così ci arrivai.

(Novanta gradi).

Cambiò assolutamente tutto. Fino a un attimo prima stavo spingendo con tutte le mie forze, caracollandomi per imprimere alle aste ogni possibile stilla di energia da ogni muscolo del mio corpo quando, da un istante all’altro, Lei cominciò ad aiutarmi. [“…Prostoe dinamicheskoe primenenie: maiatnik…” (“…Una semplice applicazione dinamica: il pendolo…”)].

Lo percepivo con disarmante lucidità: stavo accelerando. [“…Posredstvom neozhidannaia uskorenia maiatnika …” (“…Attraverso l’inattesa accelerazione del pendolo…”)].

Come un nuotatore che sta per affondare, e all’improvviso si trova trasportato a venti nodi di velocità sul muso di una balena affiorata improvvisamente, avevo smesso di fare qualsiasi fatica, mentre l’Altalena ampliava inesorabilmente il proprio arco.

Ero paralizzato. Noncicredevononcicredevononpotevocrederci. Era impossibile, assolutamente impossibile. Ma stava succedendo. Ci credetti.

Improvvisamente del tempo del Mondo, fosse stato anche quello della galassia o dell’intero universo, non mi fregava assolutamente più un cazzo. Io stavo violando tutti i principi della termodinamica. [“…Opisatelnoe uravnenie ravnomerno uskorennogo dvizhenia kachelej pokazivaet, shto…” (“…L’equazione descrittiva del moto uniformemente accelerato dell’altalena mostra che…”)].

Quel lurido, putrido, grandissimo figlio di gran puttana di Akundjanov aveva ragione.

E io stavo piangendo.

Tutto quello che avevo fatto, detto, tentato, escogitato, patito, sperato e creduto negli ultimi quattro anni, a ogni nuova oscillazione si inabissava nel più profondo dei mari del chissenefrega. Non avevo la minima idea di un qualunque chissà perché e chissà per come: l’unica stramaledetta cosa che contava era Velikie Kacheli, la Madre impossibile di ogni fottutissima altalena di questa Terra, che cavalcava ai miei comandi. C’era un Supremo Imperatore di tutte le Galassie? Certo! Ero io! Mi vedevo nelle piazze delle capitali del globo, circondato da folle plaudenti e osannanti, a gettare personalmente in roghi crepitanti tutti i testi di fisica classica, mentre mesti gruppi di fisici, laceri e scalzi e naturalmente in catene, attendevano tremanti un mio gesto, che avrebbe decretato per loro l’eterno esilio…

Nel medesimo frangente, Larson si sarebbe dichiarato “moderatamente soddisfatto”: io mi dichiaravo completamente impazzito dalla gioia.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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