L’Altalena (cap. 7 “Pozzi di petrolio” -1)

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Cap. 7 – Pozzi di petrolio

Quella notte sognai venti e tempeste, ma mi riposai lo stesso. Ne avevo così bisogno, che a svegliarmi fu il telefono. Erano le dieci del mattino, le quattro di notte in Inghilterra. Larson era preoccupato, ma lo tranquillizzai subito: stavo bene, ed ero tutto intero. Visto che mi trovavo e comprensibilmente anche mi sentivo in una situazione di emergenza, la faccenda del fallimento della missione al momento rappresentava per me un aspetto secondario, che trattai come tale.

Lars si mostrò dispiaciuto, ma era ben più felice di sapermi incolume. Si offrì di chiamare lui Ahmanov, ma declinai in base all’ovvia considerazione che sapevo meglio io cosa dire al kazako, che non lui da Wolverhampton. Quindi ci salutammo, con la promessa di una mia chiamata appena arrivato a Turgaj. Ancora non potevo saperlo, ma quella fu l’ultima volta che avrei sentito la sua voce.

Chiamai Ahmanov. Servì un buon quarto d’ora solo per fargli capire la situazione, e altri venti minuti per concordare un piano di recupero. Alla fine, fummo d’accordo che mi avrebbe richiamato nel pomeriggio, sperando nel frattempo di aver trovato qualcuno che lo accompagnasse con un fuoristrada.

Ora, in base alle nuove prospettive, avevo più di ventiquattr’ore di tempo da riempire in qualche modo, come per esempio visitando a piedi uno spicchio di deserto. Ma il Barsuki lo conoscevo già, e non mi era apparso particolarmente vario o interessante. Inoltre, la prospettiva di camminare sotto il sole di giugno con trenta gradi o più e venti chili di roba sulle spalle non mi allettava per niente. Decisi quindi di cercare un po’ d’ombra nel canalone, sebbene a prima vista questo non ne offrisse, visto che si apriva verso ovest. Avrei provato a fare qualche centinaio di metri: magari trovavo un’ansa che, svoltando verso nord o sud, avrebbe creato un riparo di roccia contro i raggi del sole.

Dopo poco più di un chilometro, proprio quando stavo cominciando a sudare un po’ troppo, sulla destra intravidi non una curva, bensì l’imbocco largo una decina di metri di una specie di spaccatura nella roccia, che sembrava proseguire verso nord-ovest, in una direzione indipendente da quella del canalone principale. Lì non poteva non esserci dell’ombra, e dopo due minuti stavo seduto in una relativa frescura, al riparo della roccia.

Questo sarebbe stato il momento ideale per riflettere sul mesto epilogo della mia avventura. All’ombra dei confini occidentali del Barsuki c’erano tutto il tempo e la tranquillità necessari per ammettere un fallimento che – a seconda di come lo si volesse guardare – poteva considerarsi una grottesca commedia o un disastro pianificato e personalizzato.

Ma le risorse della mente umana a protezione dell’equilibrio mentale di chi la nutre sono innumerevoli e insospettabili: il mio cervello semplicemente si rifiutava di fare un qualsiasi bilancio, temendo che non l’avrei potuto sopportare, almeno non qui e non adesso. Così deviava gentilmente ma fermamente la mia attenzione verso la struttura rocciosa che mi circondava: senza rendermene conto mi trovai a esaminare la composizione e la forma delle stratificazioni geologiche.

Non che queste apparissero granché interessanti per un profano come me, ma nell’intento di non farmi pensare ad altro la mia mente si poneva una serie di domande oziose, a raffica: e perché si creano le fenditure nelle montagne? e quanto tempo ci mettono a formarsi? e perché vanno di qui invece che di là? e quanto sono lunghe?…poi ricominciava, petulante.

Beh, all’ultima domanda della serie potevo rispondere anche senza essere un geologo. Così, tanto per fare qualcosa, mi alzai per esplorare l’ombreggiata diramazione del canalone. Per prudenza mi portai tutto lo zaino.

Il minuscolo canyon aveva una caratteristica che trovavo un po’ strana: non si allargava o restringeva, restando sempre largo una decina di metri; sembrava quasi il letto di un antico fiume, cosa peraltro assai improbabile da quelle parti. Comunque era curioso, e in una certa misura interessante.

Dopo aver percorso circa mezzo chilometro, mi si parò davanti una brusca curva verso sinistra. Superandola, rimasi a dir poco stupefatto: il canale/canyon era finito, e davanti a me si apriva un’altra pianura, in tutto e per tutto simile all’altro lato del Barsuki. Ero semplicemente interdetto per la sorpresa.

Mi trovavo in una specie di anfiteatro, limitato a destra e a sinistra dai contrafforti delle montagne che avevo appena attraversato. In realtà, queste tracciavano solo un confine: gli altri tre restavano aperti: la pianura non mostrava limiti. Presi la mappa, ma questa non mi aiutò, perché fuori dai margini del deserto diventava indistinta. Tutta la relativa frescura del canalino era svanita: osservavo il consueto tremolio dell’aria di una landa desertica d’estate e in pieno sole. Faceva proprio un bel caldo.

Mi posi una domanda apparentemente stupida, ma che vista a posteriori non lo era affatto: “Perché nel canalino non c’è vento?”. Mettendo in comunicazione due aree calde, l’ombra della fenditura non poteva non creare un flusso d’aria. Il canalino avrebbe dovuto possedere una naturale brezza, che invece non c’era.

Ripresi a guardarmi in giro, e la mia sorpresa per aver trovato la pianura fu nulla a confronto di quando scoprii che, lontano lontano, verso sud-ovest, tra i tremolii dell’aria riscaldata del deserto c’era un pozzo di petrolio.

A qualcosa come cinque o sei chilometri da me c’era un pozzo, uno solo. Quello che vedevo non era il pozzo vero e proprio, bensì la tipica struttura a traliccio che serviva a estrarre il petrolio. Che in Kazakstan ci fosse il petrolio, lo sapevo; ma che ci faceva un pozzo, isolato da tutto il resto (strade, ferrovie, infrastrutture, raffinerie…), nel bel mezzo di una pianura che sarebbe stato eufemistico definire “fuori mano”?

Il traliccio tremolava nell’aria, come un miraggio. Era al tempo stesso affascinante e inquietante: sembrava un totem. Mi sono sempre piaciute le strutture industriali, ancora meglio se isolate dal contesto, così feci quello che non avevo fatto per il Barsuki: mi incamminai verso il pozzo.

Era mezzogiorno, e il caldo non era certo diminuito. Sudavo abbondantemente sotto il cappellaccio da Indiana Jones, e tenevo gli occhi bassi per il riflesso, nonostante i pesanti occhiali scuri antisabbia. Ogni tanto alzavo la testa per controllare la mia direzione e quasi per accertarmi che il miraggio non scomparisse. Ma il traliccio non scompariva, e anzi si faceva sempre più grande e incombente sulla pianura.

Era veramente singolare. Non assomigliava né alle torri dei pozzi arabi, né tantomeno alle ben più piccole pompe rotanti di tipo americano. Era una specie di via di mezzo tra un traliccio dell’alta tensione, ma più imponente, e le gru che sollevano i container, ma senza braccio. Era scuro, quasi nero, e anche questo era difficile da capire: mi sarei aspettato di vedere i riflessi del sole brillare sul metallo nudo. Invece niente: a chi poteva venire in mente di verniciare una pompa petrolifera? Ma la cosa più strana era la sua sommità a guglia, la cui foggia non assomigliava a nulla di noto. Inoltre, non vedevo il palo della trivella di perforazione: molto probabilmente quindi la struttura non era funzionante. Forse in passato era stata costruita per prospezioni esplorative che non avevano dato i risultati sperati, ed era stata perciò abbandonata.

Quando alzai di nuovo la testa, al traliccio non potevano mancare più di due chilometri. Ero stanco, insolitamente stanco, e avevo sete.

Ma non era solo quello, a mettermi a disagio: c’era qualcosa che non quadrava, in quel pozzo di petrolio. Niente di identificabile con precisione, solo una somma di piccole incongruenze apparenti e una strana atmosfera nell’aria. Questa infatti era ferma, quasi in attesa. Mi ricordava di quell’unica volta in cui mi ero trovato in prossimità di una tromba d’aria che stava per formarsi. Era la stessa atmosfera immobile, ma a suo modo minacciosa.

E’ il sole” mi dissi “e lo stress degli ultimi giorni”. Forse, ora che l’eccesso di adrenalina era ormai stato completamente espulso dal mio corpo, il mio organismo stava cominciando a reagire alla brutta avventura vissuta nella bufera, e mi potevo aspettare un piccolo shock fisico e magari anche emotivo.

La cosa più intelligente da fare sarebbe stata un bel dietrofront, per riportarmi al riparo dell’ombra del canyon, ma era impossibile: per carattere, cultura e senso estetico non sarei mai riuscito a resistere ad un traliccio isolato e abbandonato in mezzo al deserto. Così continuai ad avanzare, sempre più stanco, nel silenzio assoluto.

Improvvisamente fui colpito da un fulmine.

Non si manifestò come una scarica elettrica, ma ebbe lo stesso effetto: un lampo mi attraversò il campo visivo, che era limitato al terreno davanti a me, e mi immobilizzò completamente.

Un singolo fotogramma, brevissimo, si sovrappose al lampo: un piccolo dito puntato verso sud e due occhi neri, e una voce senza luogo che sussurrava [“kacheli…Barsuki”].

Caddi in ginocchio, annientato. [Barsuki].

L’angelo, custode forse mio o forse della Morte, aveva parlato. Non stavo guardando un pozzo di petrolio. [kacheli].

Non esistevano pozzi di petrolio, in quel deserto. [Barsuki].

Non erano mai esistiti.

Da quasi un’ora, quello che stavo guardando era l’Altalena.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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