L’Altalena (cap.5 -2)

L

A Tashkent non ci aspettavano cammelli, ma jeep e Land Rover. Così, se facemmo un gran giro di peppa, almeno eravamo comodi: Tashkent-Samarcanda-Nukus, quindi attraversammo il confine usbeko-kazako verso Novokazalinsk, su quel che restava del Syrdarja. Fin qui, erano zone che già conoscevo e – cosa che mi stava particolarmente a cuore – ci entravo ancora una volta con tutti i permessi necessari.

Avanzando nelle diverse forme di deserto che si presentavano tra Nukus e Aralsk, ebbi modo di raccontare al mio amico i dettagli della mia ossessione: io parlavo, lui mi ascoltava quasi sempre in silenzio, da buon montanaro. Neanche per un momento pensai che non mi capisse.

Una tarda sera, accampati ormai in prossimità di Aralsk, parlò lui. Disse solo una cosa, e poi mi fece una domanda. Mi disse: «Ti ammiro; tu corri un rischio». Non si riferiva ai pericoli del viaggio. «Rischi di non trovare quello che cerchi, e allora continuerai a cercarlo. Ma rischi anche di trovarlo, e allora la tua ricerca sarà finita».

Era dannatamente vero, come avevo già avuto modo di pensare di ritorno da Irkutzk; in ogni caso, questo viaggio era – per me – qualcosa di definitivo. Cosa avrei fatto, se (come probabile) non avessi trovato un bel niente? E se invece fossi finalmente “arrivato al mio mare” come Alessandro Magno arrivò al suo?

Non c’era risposta, e infatti non aggiunsi niente. Dopo qualche minuto di silenzio, Dino pose la sua domanda: «Come credi sia fatta, quest’altalena? Cosa ti aspetti di vedere?».

Mi resi conto che non ne avevo idea. Per quattro anni l’altalena delle leggende e di Akundjanov (se era la stessa) l’avevo immaginata sempre e solo nella familiare forma di quelle della mia infanzia. Naturalmente avrebbe avuto le aste rigide, perché le vere altalene sono così, e lo stesso sedile di legno con le venature grosse, e gli stessi snodi di ferro scuro. La grande altalena era, per me, semplicemente una delle altalene di Piazzale Rosmini, solo più grande, in modo da accogliere un uomo invece di un bambino, ma avrebbe lasciato intatte – per chi ci saliva – le proporzioni che ricordavo.

Non solo non mi immaginavo di vedere niente di diverso, ma non ero preparato a vedere niente di diverso.

 L’unico tipo di preparazione che avevo davvero era fisica. Per prendermi con sè, Dino mi aveva posto solo una condizione, quella di essere in piena forma. Era stato categorico: «O così, o resti a casa». Perciò avevo passato i cinque mesi precedenti a fare ginnastica, scalare montagne, correre per decine di chilometri, esercitarmi alla vita all’aperto. Avevo dormito sotto le stelle, mangiato due panini in tre giorni, bevuto solo quando trovavo un ruscello o una sorgente. Ero dimagrito di dieci chili, e stavo benissimo.

Dino aveva insistito perché, prima di partire, andassi personalmente con lui a scegliere l’equipaggiamento. «Potrebbe salvarti la vita, quindi non te lo puoi far comprare da un altro» – aveva detto. Giusto. Così mi ero trovato proprietario di uno zaino-tenda, occhiali anti-sabbia, scarponi da deserto. Avevo fatto incetta di razioni K, quelle che si scaldano da sole, provvista di sali e integratori vitaminici; avevo due kit di emergenza, medicine per ogni evenienza, un desalinizzatore da tasca. Mi ero dotato di tre coltelli con funzioni diverse, di bussole e di un GPS; avevo una corda da scalata da 20 metri, moschettoni, un’imbragatura, una maniglia da grotta.

Se avevo perso dieci chili nel mio perimetro personale, ne avevo acquistati venti da portare sulle spalle.

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 La prudenza non è mai troppa – si dice – ma era necessario?

Per arrivare dove sono adesso, del mio armamentario non mi è servito quasi niente, salvo la corda, l’acqua e le razioni K. Ne ho ancora tre, quindi non posso restare fermo qui ancora per molto.

Ma c’è un problema, un problema serio. Non so dove andare, perché non so se ci sia un posto dove andare. Il telefono satellitare emette solo scariche, e non è un buon segno. Non è affatto un buon segno, soprattutto se – come credo – ho capito il perché.

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4 comments

Rispondi a edoardo burlini Cancel reply

  • Questo tuo racconto mi ha stregato. E il presentarlo così, a puntate, ha un che di sadico. Quando fumavo, fumavo sigarette. Il sigaro e la pipa, che prevedono pause e riprese, non li ho mai amati. E così i libri. Se mi appassionano, mi piace leggerli fino alla fine, con il minor numero di pause possibile. Ti prego, non dirmi che mancano ancora 20 capitoli! Un abbraccio.

    • Sono molto contento di quel che dici. Stregare è meglio che piacere. Venerdì sera, partendo dalla fine di questa “puntata”, ho finito per rileggere tutto quello che resta. Non sono riuscito a fermarmi (anche se lo conosco piuttosto bene).
      Posso dirti che siamo a pag. 49 di 93, quindi a un po’ più di metà; ma ti dico anche più volentieri che – secondo il mio parere – la seconda parte è più interessante della prima.
      Siamo a meno di metà del quinto capitolo e poi ci sono altri 5 capitoli.
      Tieni duro (e organizza il barbecue, ‘che ho fame…di rivedervi).

  • Dimenticavo….
    Se poi a qualcuno interesserà, vi manderò il file completo e impaginato per mail, con copertina, dedica, note finali e balle varie.

    “Be my fan, and get your seat in Heaven”.

SU DI ME

SONO EDOARDO, NATO A TRIESTE NEL 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. CONTINUA...

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