L’Altalena (cap.2 “Akademgorodok” -1)

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Capitolo 2 – AKADEMGORODOK

Trascorse un anno, durante il quale quasi mi dimenticai di tutta la faccenda, benché tenessi il dossier dalla busta giallo-tristezza in un posto ben preciso della mia libreria. Sapevo dov’era, ma per lo più evitavo di guardare in quella direzione: a seconda del mio umore, soffermarmi con lo sguardo su quella busta poteva significare alternativamente l’equivalente di fissare il muro o, al contrario, sentire una specie di spina nel fianco. Un paio di volte pensai di buttarla via, e buonanotte. Un’altra volta, invece, mi trovai a fissarla intensamente: al suo interno riposavano i resti di un’ipotesi promettente abbandonata per sopravvenuta indegnità, i prodromi di una ricerca esotica abortita alla prima tappa. Ero seccato: mi ero entusiasmato ad un’idea vaga e misteriosa, che aveva titillato più di una corda dentro di me, ma che presto mi aveva lasciato senza possibilità di coltivarla ulteriormente. La cosa più fastidiosa era il senso di incompiutezza, ben peggiore della consapevolezza di impossibilità: non è che ad un certo punto si fosse improvvisamente abbassata una saracinesca con sopra scritto “Ti sei sbagliato, pollo!”; no: l’esistenza della grande altalena apparteneva ancora al regno del possibile, solo che non vedevo una strada per svelarne il mistero.

 Tutto si stava pian piano stemperando verso una tollerabile indifferenza (ma la busta intanto non l’avevo buttata), quando un bel giorno ricevetti una telefonata di lavoro. Mi fu chiesto se volevo partecipare – in qualità di esperto – alla terza edizione di un progetto comunitario a favore degli ex ufficiali dell’Armata Rossa. Quando mi elencarono le località beneficiarie, fu pronunciato anche il nome di Akademgorodok. Accettai l’incarico all’istante.

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 Qui cominciò la mia fine, che mi ha portato fin qui, a sentire questo vento caldo sulla faccia, e ad ascoltare senza volontà di andarmene lunghi teli neri che sbattono, sbattono, e non si capisce come si possano muovere (visto che il vento è leggero, e ogni telo deve pesare svariate tonnellate).

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 A Mosca si ingaggiò una bella lotta tra esperti, per tenere il culo al caldo. Fui perciò guardato con compassione ma anche gratitudine quando mi candidai spontaneamente per l’esilio siberiano. Finalmente ero arrivato dove volevo arrivare, e avrei potuto continuare a curiosare in giro. Certo, c’era un bel rischio: magari avrei scoperto che Akundjanov aveva scritto di un’altalena galattica su Andromeda (qualunque cosa potesse significare), o su come arredare un giardino all’inglese (della salute mentale degli scienziati di Akademgorodok è bene diffidare), e io avrei trascorso il resto dei sei mesi di incarico a rimpiangere i colleghi rimasti a Mosca e dintorni, alle prese con le puttane del Night Flight.

Arrivando alla città-chiusa direttamente dall’aeroporto di Novosibirsk, ebbi una sorpresa: Akademgorodok non era brutta, squallida e triste come temevo, era molto peggio. Tutta la polvere, sia materiale che ideologica, depositatasi con il crollo dell’Impero sembrava essersi spontaneamente raccolta colà. Akademgorodok era un posto decrepito: ogni anfratto, ogni via, ogni vetrina, ogni spento sguardo degli abitanti mandava lo stesso messaggio: sconfitta. Irrimediabile, su tutta la linea. Nel percorrere per la prima volta i viali che portavano al mio ufficio, a bordo della vetusta Fiat 124 made in Togliattigrad, mi chiesi come mai Tarkovskj non avesse colto al volo l’occasione che la città gli offriva, per ambientarci uno dei suoi allegri filmetti per aspiranti suicidi. Per ottenere l’effetto voluto, in realtà gli sarebbe bastato girarci un documentario muto.

Passai le prime settimane a combattere serie minacce di depressione, mentre il cielo frequentemente plumbeo cercava di schiacciarmi al suolo. Non avendo le risorse di Atlante, cercai di tenermi su prendendo i necessari contatti con i notabili locali e chiedendo loro in sovrappiù che relazioni avessero con i “gruppi di ricerca” ancora attivi. Risultò che di attivo c’era ben poco: tutte le principali linee di studio (quelle meno assurde, almeno) erano chiuse da decenni, e qui e lì sopravvivevano fantasmi e ruderi di fantasmi, tutti vestiti da ricercatori da film degli anni ’20.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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