L’Altalena (cap.2 -3)

L

Gettai l’articolo sul tavolo, annichilito dal fatto che mi ero sorbito tre mesi di esilio (e altri tre me li sarei dovuti ancora sorbire) per avere il privilegio di leggere un racconto di fantascienza, partorito dalla mente ormai allo sfacelo di un vecchio fallito, che probabilmente credeva fermamente in ciò che scriveva solo per non morire di disperazione in un posto dimenticato da tutti.

Dentro di me cresceva la rabbia, pensando che sotto la stessa luna in quel momento a Mosca i miei colleghi si stavano dando alla pazza gioia, magari ringraziandomi ironicamente per la mia brillante scelta.

Le due settimane successive furono semplicemente nere, come il mio umore, tanto che – accorgendosene – i colleghi russi mi lasciarono in pace, smettendo di invitarmi alle loro cene e bevute nelle tristi bettole della città-prigione.

Fu durante una di queste solitarie serate che, stranamente fatalista e quindi meno depresso del solito, ripresi in mano l’articolo. Immediatamente però mi ritornò un sordo rancore, sia contro me stesso che soprattutto contro Akundjanov. Cercavo infatti vanamente quello che chiaramente non ci poteva essere: una traccia di dove mai fosse la fantomatica altalena. E certo! Si fosse rintracciata questa, Akundjanov l’avrebbero mandato difilato in un gulag, o magari in manicomio, o ancora meglio – mi accanivo mentalmente – in un manicomio dentro ad un gulag. Il vecchio bastardo si era guardato bene dallo svelare il mistero della sua fonte di ispirazione. Del resto, niente è più misterioso e difficile da trovare di ciò che non esiste. Ma il vecchio citrullo così mi aveva giocato uno scherzo con i fiocchi, facendomi venire fin lì dall’Italia, e per giunta di mia volontà. Mi venne improvvisamente da ridere di un riso isterico, pensando alle somiglianze con il Nekronomicon di Lovecraft, censito e persino catalogato alla biblioteca di Berkeley, senza essere mai stato scritto. Qui però la cosa era in parte diversa: l’articolo c’era, e qualcuno l’aveva pure citato su internet. Questo rimaneva l’aspetto più strano di tutta la vicenda: chi si era dato pena di tale sforzo? E perché? Domande futili, come tutta la storia.

 Rilessi l’articolo, non trovando niente di più e niente di meno della prima volta. Per passare il tempo e rinverdire il mio scarsissimo russo, confrontai la traduzione con l’originale. Quasi alla fine notai una piccola differenza. Probabilmente per risparmiare tempo, la mia interprete non aveva riportato delle piccole parentesi della nota, a fianco dei “colleghi di campo” di Akundjanov (i suoi blasonati “fisici sperimentali”). Sembravano nomi di luoghi. L’indomani mi procurai un atlante, cercando i nomi tra parentesi. Sorprendentemente, i soli tre degni di essere menzionati sulla mappa risultavano appartenere alla stessa zona, di non più di 100 chilometri di raggio. E non stavano a 2500 chilometri da Akademgorodok, ma a circa la metà. Non erano in Iran o nel vecchio Turkestan meridionale – come avevo pensato più di un anno prima – ma molto più a nord, in Kazakstan, nella parte più disabitata, quella occidentale, tra il Ripiano del Turgaj e il Mugodzary. Tra l’altro – notai – piuttosto vicino al bacino del lago d’Aral. Si trattava di una zona che più o meno conoscevo. In verità io ero stato più ad est, verso Aralsk, ma sapevo che tutta l’area non brillava per vita mondana, essendo spazzata d’inverno da venti che portavano la temperatura a –30°/-40°. Per contro, d’estate vi faceva un bel calduccio umido, ma non per questo i venti cessavano di soffiare, continuando invece a portare le sabbie sature di fertilizzanti chimici dell’ex letto di quel che restava del lago. Una zona salubre.

In ogni caso, gli sperimentatori del professore (almeno i tre la cui provenienza era rintracciabile sulla carta) appartenevano alla stessa area, e se questa aveva qualcosa a che fare con l’altalena, la “grande fregatura” – come l’avevo ribattezzata – stava 1500 chilometri più a nord di quanto avevo pensato sino a quel momento. In ogni caso, sempre lontano da me.

 Trascorsi altri tre mesi ad Akademgorodok lavorando e riprendendo le serali visite accompagnate alle bettole del luogo (e che altro potevo fare?), ma una settimana prima di andarmene definitivamente mi venne l’idea di procurarmi gli altri due articoli di Akundjanov. Ripercorsi il calvario patito la prima volta, ma l’assicurazione che non mi sarei più fatto vedere questa volta rese più malleabili le Guardiane della Conoscenza. Dopo un’ora uscivo dall’edificio, con altre fotocopie. I due articoli erano molto più tecnici di “Velikie kacheli”, e assolutamente al di là di ogni mio potere di comprensione: non avevo la minima idea di che cosa trattassero; sembrava roba teorica, e non mostrava nessun nesso apparente col problema dell’altalena. Conclusi che, prima di consegnare il cervello ai pesci, nei due lavori Akundjanov avesse dato i suoi ultimi contributi seri alla scienza.

2 comments

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  • Quando hai pubblicato il primo capitolo dell”altalena” ho avuto da subito una sensazione di dejà vu.
    Tuttora non sono sicuro di quello che sto per esporti, ma trovandomi a ciondolare per casa in un mare di tedio, con testa appesantita e occhi doloranti per una fastidiosa influenza, forse mi farà bene condividere quella che è poco più di una vaga e diafana coincidenza.
    Metto subito le mani avanti: non c’è nulla di clamoroso anzi, se trovassi non pertinenti, o noiose, le mie argomentazioni, butta via tutto e io sicuramente non avrò nulla da recriminare.
    Il primo flash l’ho avuto ad Akademgorodok che mi ha riportato immediatamente alla scorsa Biennale.
    Al padiglione Russo infatti erano esposti dei panorami di città sovietiche fino a pochi anni fa ignote a qualsiasi cartografo (tranne, suppongo, a quelli delle forze spionistiche di mezzo occidente).
    Sono le città che ospitavano centri di ricerca scientifico-militare della vecchia URSS, la segretezza delle quali è stata superata dal corso degli eventi.
    C’è da dire che lo svelamento di questi siti non ha portato, almeno sotto l’aspetto estetico, gran giovamento ai russi, men che meno al resto dell’umanità. Fanno schifo, ovviamente.
    Ho pensato: va bene, il tarlo in testa è appagato, scoperto il collegamento, missione compiuta.
    Invece no.
    Bene, il tema del tuo racconto (a proposito, sei pregato di ravvicinarne le pubblicazioni), almeno fino ad ora, verte su una interessante caccia al tesoro.
    Ora ti voglio partecipare di un fatto, banalissimo beninteso, che, se non avessi la febbre, probabilmente riterrei totalmente irrilevante, non pertinente e che forse troverei ridicolo raccontare.
    Saranno passati circa venti anni che mi trovavo a gironzolare tra gli scaffali della libreria Toletta, scroccando qualche lettura , qua e là.
    Stavo sfogliando non ricordo quale tomo quando alla parte opposta dell’espositore la mia attenzione è stata catturata dalla conversazione tra due amici, forse ventenni, universitari.
    Uno dei due, tra il preoccupato e il rassegnato, spiegava al compagno che “senza quel libro non potrò avere le giuste informazioni per il racconto”.
    Era preoccupato perchè aveva già ricevuto un sollecito da uno dei suoi docenti, ma non sapeva come uscirne.
    Incuriosito orientai come un gatto le orecchie e riuscii a cogliere la domanda rivolta alla cassiera-commessa: ho assoluto bisogno di trovare un libro. Avete, o sapete dove posso reperire, “Peste e Società a Venezia nel 1576 di Paolo Preto”?
    Il prevedibile diniego della commessa non potè far altro che gettare nello sconforto il poveraccio.
    Non ho avuto bisogno della cabina telefonica per vestire i panni di Superman e con aria di uomo vissuto mi sono avvicinato: è il tuo giorno fortunato. Io ho quel libro.
    L’unica cosa che ricordo è che, rivolgendosi all’amico, disse stupefatto: Dio esiste!
    Prendemmo accordi per il giorno seguente, passò per casa (c’era il rischio che pensasse a un inopportuno rimorchio), prese in consegna il libro e se ne andò non prima di avere promesso una sicura restituzione.
    Fu di parola. Dopo qualche tempo, io assente, riconsegnò il libro nelle mani di mia madre, non senza corredarlo di una copia del lavoro svolto.
    Questo racconto l’ho letto e riletto e mi è parso molto avvincente.
    Mi ricorda un po’, per intreccio, personaggi e atmosfere, alcuni racconti di Hugo Pratt.
    L’ho scansionato e volentieri lo divido con te.
    Non chiedermi chi è l’autore. Non conosco il suo nome (singolare, vero?)
    Che c’entra con la tua altalena?
    Sono due cacce al tesoro, una dentro l’altra, come matrioske (e ancora Russia): la ricerca del libro e l’oggetto del racconto e, di soprammercato, uno dei personaggi è di Kiev.
    Mi pare sufficiente per raccontare una storia.
    Tra qualche ora ti invierò i PDF del lavoro per posta elettronica. Se dovessi incontrare difficoltà, opteremo per un fax.
    Ciao

  • Vado con ordine:

    1)Non ti prendo per matto o altro. Non ha neanche importanza se tue associazioni mentali sono condivisibili o meno. Nessuna importanza: quel che conta è che PER TE si sia manifestata una suggestione. Questo è il principale motivo per cui scrivo.

    2)Ho avuto la stramaledetta fortuna di visitare una delle città cui fai riferimento. Nel 1999 esistevano ancora (e, mi risulta, anche adesso) “città chiuse”, che non sono segnate sulle carte e i cui abitanti mostrano sui documenti una residenza diversa da quella effettiva (mica si puà abitare in un luogo che ufficialmente non esiste, no?). Queste città sono divise in due parti, una per i civili e l’altra solo per i militari. Nella piazza in cui c’era una rete di separazione tra i due complessi svettava un’ottimamente conservata e manutenuta statua di…Stalin! In quella città c’era il centro di comando della gestione dell’intero sistema russo di rilevamento e difesa radar contro i missili balistici.

    3)Non “riavvicinerò” la pubblicazione delle puntate. Ragioni di marketing 🙂 . Mi piace pensare che qualcuno mi maledice perché me la prendo comoda. 🙂

    4)Caccia al tesoro. Il mio racconto è proprio questo. È un genere ben consolidato, sotto il nome di Quest. Io ho avuto una fonte di ispirazione precisa e costante: “La corazzata Tod”, di Buzzati. Ne faccio cenno nelle note conclusive, che pubblicherò in coda al racconto.

SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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