Everest

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[vc_row css_animation=”” row_type=”row” use_row_as_full_screen_section=”no” type=”full_width” angled_section=”no” text_align=”left” background_image_as_pattern=”without_pattern”][vc_column][vc_column_text]Martin vedeva l’uomo arrancare, un lentissimo passo alla volta, mentre la voce fuori campo spiegava che le difficoltà non erano alpinistiche, ma dettate dalle condizioni ambientali estreme. Martin aveva otto anni e nessuna esperienza di scalate dell’Everest. Ma non si sarebbe aspettato tanta neve, quanto piuttosto roccia, e pensava che gli scalatori si chiamassero così perché andavano in verticale, non praticamente in piano, un lentissimo passo alla volta. “Condizioni ambientali estreme” sembrava spiegare tutta la sofferenza dell’uomo.
Il giorno dopo, Martin provò a simulare sul prato la camminata dell’alpinista della televisione. C’era una tiepida brezza di marzo, le prime api a volare basse sui fiori e nuvolette bianche in un cielo più blu dei suoi occhi. Anche sforzandosi, non riusciva a essere altrettanto lento: anzi, tutta la sua scarsa fatica dipendeva proprio dal tentare di andare così piano. I polmoni aspiravano tutta l’aria che gli serviva, il suo respiro era regolare, il sole gli scaldava i polpacci e le scarpe da ginnastica non avevano problemi a sollevarsi e riscendere, a calpestare l’erba.
Martin si chiese come sarebbe stato salire sull’Everest con quel sole, le nuvole, le api e la brezza di marzo.

Ci sono avvenimenti, situazioni, libri e trasmissioni televisive che nessun genitore potrà mai sospettare quanto in profondità si installino nel ricordo e nella personalità dei propri figli. Martin crebbe – e crebbe bene – con quel documentario nella memoria. Durante l’adolescenza salì la sua parte di falesie, si sbucciò la sua parte di ginocchia, corse e rise e soffrì senza mai dimenticare quell’arrancare, un lentissimo passo alla volta, benché non lo avesse mai sperimentato.
Al primo anno di università gli venne un’idea, secondo la quale non occorreva sperimentarlo. Pensò che se tutto era così difficile a causa di condizioni ambientali estreme, sarebbe stato sufficiente non tenerne conto, per ascendere al tetto del Mondo come se si trattasse di una passeggiata su un prato. Decise di cominciare ad allenarsi. Era atletico e sano, così non era lo stato fisico a preoccuparlo. Tutta la sua attenzione doveva andare a uno specialissimo condizionamento psicologico, volto a dimenticarsi del freddo, della mancanza di ossigeno, della pesante e ingombrante attrezzatura da trascinare con sé. Bastava sostituire la percezione della bufera di vento, dei cinquanta gradi sotto zero, degli accecanti riflessi della neve con l’immagine di un prato di marzo, con le api e le nuvolette e l’erba che si piegava sotto le scarpe da ginnastica.
Cominciò a seguire dei corsi di psicologia, poi di meditazione, poi di ipnotismo.
A ventisei anni, il primo lavoro e un po’ di soldi in tasca, si sentì pronto. Tuttavia occorsero altri due anni di intensa attività alpinistica per garantirsi la necessaria familiarità con l’ambiente dell’alta montagna.
Fu così che in un giugno si trovò al campo base dell’Everest, a 5.666 metri. Sapeva che sarebbe servito un lungo adattamento all’altitudine, ma non aveva fretta. I suoi colleghi di scalata, una cordata turistica metà russa e metà giapponese, lo sapevano quanto lui e l’organizzazione. Passò una settimana ad adattarsi e sperimentare il proprio condizionamento. Scoprì di aver sottovalutato la distrazione imposta dal capo spedizione, i suoi collaboratori e gli altri scalatori. Non potevi concentrarsi bene con gente che ogni minuto ti chiamava, ti lanciava cime, ti incoraggiava a salire, saltare, piantare piccozze, verificare la tenuta del ghiaccio… Così non avrebbe mai funzionato. Certo, sarebbe riuscito ad arrivare in vetta come gli altri, perché no? Ma non nel modo che sognava da quasi vent’anni. Non era venuto lì per fare come tutti, ma per sentirsi su un prato a 8.848 metri.
Decise per un compromesso: avrebbe sopportato le interferenze fino al campo 5, a 8.557 metri, poi avrebbe fatto da solo.
Dopo un’altra settimana, tra lo stupore dei due giapponesi con cui divideva la tenda, prima dell’alba uscì nel gelo che circondava il campo 5. Nel buio completo e nel fischio del vento si allontanò di poche decine di metri, chiuse gli occhi e iniziò a parlarsi. La cosa più importante, definitiva, era vedere le api, seguirle nel loro misterioso volo simbolico, cercare di condividerne il segreto. Non doveva avere fretta, fare confronti, solo pensare al ronzio. Non c’era la luna e questo lo aiutò. La neve ghiacciata e mulinante non assomigliava in niente a un prato, ma era uniforme quanto e più di una distesa d’erba. Da fermo, il respiro non era affannoso, quasi normale, e i guanti e la tuta lo riparavano dal freddo. Alzò lo sguardo da terra: i pesanti occhiali neri lo aiutarono a non distinguere niente. La parete sud dell’Everest appariva nera o, meglio, non appariva affatto. Lentamente, senza la fretta nemica, il boato del vento sulla cresta, su in alto, salì di tono, e senza spegnersi si trasformò in qualcosa di familiare. Così vennero le api, e Martin si mise in marcia.
Il suo Maestro gli aveva insegnato ogni trucco possibile, ogni sfumatura che lo aiutasse a entrare nel sogno. Martin non tentò di camminare svelto, bensì si sforzò di essere lentissimo, come aveva fatto a otto anni. Fu molto fortunato, perché – condizione estremamente rara – quando il sole sorse mostrò un cielo solcato dalle “sue” nuvole, anche se assai più veloci di quelle di un lontano giorno di marzo. E così Martin continuò a salire, quasi a occhi chiusi, pestando l’erba verdissima e sotto una volta azzurra che solo di quel colore poteva essere. Un passo alla volta, per prudenza, sul suo prato.

Il capo spedizione, preoccupatissimo per l’allarme dato dai due alpinisti giapponesi, lo trovò molte ore dopo, seduto sulla cima. Che razza di modo di suicidarsi è questo? – si chiese. Ma il viso di Martin sorrideva, benché completamente bluastro come le braccia, coperte in minima parte dalla sola t-shirt.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

3 comments

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  • Mi piace questo breve racconto, ma francamente, e me ne scuso, non riesco a trovare il nesso tra le api e l’Everest. D’accordo, esse possono essere uno strumento per concentrarci e controllare il respiro e l’andatura. Però, pensando all’Everest mi viene in mente un alcunché tipo,”infinito”, “sguardo perso sull’orizzonte del mondo”. Naturalmente sono solo miei pensieri. Comunque, complimenti hai la stoffa dello scrittore. Ciao. Tommaso

SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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