Il Duca di Burlington

Nel 1969 e negli anni seguenti, sulle piste da sci si sentiva spesso Flash. Una roba talmente trascinante che anche chi aveva i legni ai piedi per la prima volta si sentiva Gustavo Thoeni.

Flash era suonata da un gruppo, i Duke of Burlington. Per quanto ne sapevo io, non avevano fatto nient’altro in vita loro, ma Flash giustificava la loro meteorica esistenza almeno quanto quella – meno meteorica – di Albert Einstein o Leonardo da Vinci (esagero?: provate ad ascoltare Flash con gli sci a piedi, poi mi direte).

La verità – per me, grazie a internet – è venuta a galla molti decenni dopo.

Nel 1968 un progetto musicale inglese, chiamato Marquis of Kensington, aveva scritto Flash. Un brano assolutamente pop, stile psicheledico, un po’ spigoloso.

Un italiano, Mario Battaini, fisarmonicista eclettico e geniale, l’aveva sentito ed evidentemente gli era piaciuto. Così lo aveva ri-registrato (oggi si chiama cover). E lo aveva ri-pubblicato, celandosi dietro l’ironico nome di Duke of Burlington. Suonando tutti gli strumenti da solo, nel suo garage. Modificandone persino alcuni (come il pianoforte), per ottenere l’effetto voluto. Registrando tutto, sempre da solo, sempre nel garage. Un artigiano, un artista.

La versione originale è tutt’altro che male, ma la rielaborazione di Battaini è un’altra cosa. Giustamente, un successo internazionale.

Una cosa che resta.

Questo qui sotto, invece, è l’originale dei Marquis of Kensington.

Marquis of Kensingon (1968)

2 Comments

  • Maurizio
    26/02/2013

    Che strano, ero straconvinto che il titolo fosse “30-60-90”.
    Probabilmente mi confondo col lato B.
    Non la sentivo da più di 40 anni, ma ogni tanto mi tornava alla mente e mi prendeva lo spleen, un po’ per il tempo trascorso, un po’ perchè mi veniva sempre proposta da Paolo Giacomelli, nella sua grande casa di Riva de Biasio, esagerata (noi vivevamo in 70 metri quadrati come, chi più, chi meno, tutti), aristocratica, settecentesca, con tanto di cucine e appartamento della servitù necessariamente decadenti e bui, contrastanti con lo sfarzo dei saloni, dei soffitti affrescati e delle stanze (salottini) non frequentate e vuote, perchè sovrannumerarie e superflue (inconcepibile!), comunque arredate con mobili di pregio la cui funzione era sostenere qualche quintale di argenteria.
    La camera di Paolo era, ai miei occhi, una piazza d’armi, che affacciava su un bel giardino, arredata con degli splendidi puf arancioni (mai visti fino ad allora)modernissimi, accessoriata con batteria, microscopio, pianoforte, stereo, e non ricordo che altro.
    Ricordo che in periodi elettorali Paolo (Massimo) girava con appuntata una spillina riportante lo scudo crociato. E che pensavi, che il babbo industriale votasse per i cosacchi?
    Forse Paolo Giacomelli, al quale ho voluto bene, è responsabile delle mie scelte politiche attuali?

  • edoardo burlini
    26/02/2013

    Non ho mai neanche sospettato che Paolo Giacomelli fosse mio vicino di casa. Non l’ho mai visto, né in chiesa né in campo Santo né in qualunque calle dei paraggi. Evidentemente conduceva una vita ritirata o comunque molto diversa dagli altri ragazzi di rio Marin e dintorni. Lo vedevo soltanto a scuola, e anche lì poco. Non sapevo foste amici e anzi mi immaginavo una possibile rivalità, dovuta a capacità sciistiche simili e a un bell’aspetto di entrambi. Tu eri il monello della D, lui era il fighetto della E.
    Ma più leggo i tuoi commenti al mio blog, più mi convinco che in realtà di te ho capito veramente troppo poco.
    Ed è stato un peccato.

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