Libera Uscita

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L’AUC, come ogni militare (e anche ogni carcerato!), vive un quotidiano programmato al minuto, sotto la guida di ufficiali la cui vita è altrettanto programmata. In caserma ciò rende gli allievi in larga misura uguali, quasi intercambiabili: eravamo tutti vestiti allo stesso modo e facevamo le medesime cose nello stesso momento. Anche le personalità trovavano fatica a differenziarsi, se non per dettagli sì importanti ma tutto sommato trascurabili nel quadro generale. È vero, che Giaccaglia fosse cagacazzi, Burlini snob, Castellani pacioccone, Cutrona scoppiato già il 18 gennaio, Zanardi paraculo, Gravina nonno dalla nascita… etc.etc. lo scoprimmo nel corso delle attività comuni, ma proprio queste in un certo modo frenavano, mettevano la sordina ai caratteri intrinseci di ciascuno.

Ma c’era un momento in cui a ogni pentola sotto pressione veniva aperta la valvola: la libera uscita.

Perdonatemi se cerco sempre significati nelle cose e quindi definisco “fatidico” questo quotidiano intermezzo della nostra esperienza, ma credo sarete d’accordo con me nel ritenere la libera uscita (l.u.) quantomeno cruciale sotto molti aspetti. La l.u. restituiva ciascuno di noi a sé stesso, svincolandolo dagli obblighi di reparto, salvo quello di tornare in tempo in caserma. Durante tutta la giornata e le attività di studio e di routine la l.u. rappresentava la luce in fondo al tunnel, l’attimo in cui i rumori di questo strano circo nel quale ci eravamo cacciati – con i suoi rituali spesso incomprensibili e a volte francamente assurdi – si sarebbero smorzati per un po’,  Era la salvezza quotidiana dall’alienazione, ma costituiva anche un rischio. Perché, dall’altro lato, la vita di caserma ci proteggeva, ci dava un senso preciso, mentre essere lasciati liberi – qualcuno a 700 km da casa e molti a 19 anni – aumentava le possibilità che nel cervello ci si presentasse spontanea la domanda “che cazzo ci faccio qui?”. E a questa domanda è assai meglio riuscire a darsi in fretta una risposta, altrimenti sono cazzi. Vi ricordate quanti abbandoni ci furono nelle prime settimane, soprattutto tra i semoventi? È vero: per loro molti erano causati dalla vita assai più dura della nostra, ma quante defezioni non dipesero anche da un senso di spaesamento? Quante maturarono fuori dai cancelli, invece che dentro? Non lo sappiamo, ma non possiamo sottovalutarlo. Io avevo 23 anni, le chiavi di casa dei miei zii a due km dalla caserma e qualche soldo in tasca. Eppure mi ricordo benissimo la mia prima l.u.: in centro a Bracchausen, solo perché così avevo deciso, mi guardai in giro e mi chiesi: “beh?, e adesso?”. L’estate di un anno prima avevo passato tre mesi e mezzo in America, da solo, a lavorare con handicappati mentali in un campeggio tra i boschi, poi mi ero fatto – sempre da solo – il giro in Greyhound di 33 stati su 50. Eppure non era stata la stessa cosa. Qui era più dura, e i momenti per pensarci potevano essere esiziali.

La libera uscita era importante come stacco dalla routine e come potenzialità/possibilità. Possibilità di uscire, di fare cose diverse, di avere un rapporto più personale con i colleghi, di mangiare meglio, di fare provviste. Spesso il poter fare una cosa, sapere che farla o meno dipende solo da noi, è di per sé un grande sollievo. Qualcuno in pratica usciva molto raramente (Giaccaglia è mai uscito?), ma sapeva di essere libero di farlo: per scaricare lo stress questo bastava.

E qui siamo già al punto di descrivere come ciascuno di noi utilizzava la l.u. Io posso parlare solo per me e su quel poco che vedevo indirettamente, cioè dei colleghi che incrociavo le rare volte che andavo in centro. La mia storia l’ho già raccontata: avevo una casa a disposizione (e Meazza una volta mi fece compagnia per potersi fare una doccia come dio comanda) e avevo l‘ausiliaria, una splendida ventenne tutta curve che veniva per me in macchina da Roma. Cenavo quasi sempre a mensa, con gli avanzi (freddi) del pranzo o persino del giorno prima. La sera non c’erano file e gli amici di batteria che incontravi erano rilassati come te, per cui si poteva chiacchierare molto più piacevolmente che in altre occasioni. Ricordo una volta in cui per caso incontrai Beltrame al campo sportivo: lui correva, io facevo trazioni alle sbarre dei tubi Innocenti, sulle gradinate in riparazione. Fu un momento molto piacevole, in cui più che il collega incontravi la persona. In camerata ti imbattevi quasi sicuramente in Giaccaglia con una dispensa in mano, a fare su e giù ripassando ad alta voce. Anche Giannossi non usciva spesso, preferendo sonnecchiare sul cubo che tendeva a quel punto a somigliare a un trapezio scaleno. Insomma, durante la l.u. la caserma era come Roma d’agosto: vuota e riposante.

Chi invece usciva dalla Montefinale, “affrontando il mondo”, col procedere dei mesi lo faceva in modo sempre più organizzato. Quasi nessuno vagava da solo, ma si erano formati gruppi: chi per i negozi di alimentari, chi per le pizzerie al taglio, chi per la trattoria (di decente ce n’era una sola, mi pare). Qualcuno lo incontravi anche semplicemente a passeggio, perché fortunatamente Bracchausen non era desolante come Cesano, e dopo il freddo di febbraio poteva essere piacevole fare due passi non di marcia.

Qualcuno aveva la macchina (per esempio Castellani) e ne imbarcava altri 3-4, magari per il lago. Poi ci fu anche un gruppo o due che affittò un appartamento, anche loro immagino per lavarsi e cucinare roba decente, magari sedersi su qualcosa di meglio di uno sgabello di metallo o persino accendere un televisore.

Io – ripeto – avevo i miei privilegi personali e individuali, che credo abbiano contribuito un po’ ad attirarmi addosso la fama di quello che se ne stava per i cazzi suoi. Alla trattoria andai una volta sola, quando invece molti erano letteralmente di casa. Apprezzavo molto una pizzettara (la sua scollatura, più che altro) della piazza sotto il castello, ma il marito era grosso e con l’aria poco amichevole. Chiacchierai un paio di volte con la cartolaia vicino al baretto sulla collina (dove abitava Iaccarino), che “ci invidiava perché viaggiavamo per l’Italia” (sic): chissà che vita di merda doveva avere lei, per invidiare noi. Insomma, la prendevo con filosofia, in attesa che il sabato e la domenica l’ausiliaria mi portasse con la sua macchina nei boschetti, a trascorrere ore decisamente liete. In più mi fece conoscere suoi amici e amiche di Anguillara, tra cui una sua amica, la ragazza più bella che abbia mai visto e che… beh, ve lo dico un’altra volta.

Che le libere uscite venissero colte nella loro intera potenzialità o restassero un importante retropensiero nella sfera del possibile, la loro assenza si manifestava dolorosamente quando ci erano proibite, leggi PAO e guardie. Non poter uscire perché sei di guardia, beh, azzardo a dire che era una delle regole del gioco. La guardia ti proiettava in un mondo a parte, ridotto, un microcosmo di 7 individui uniti in un disagio temporaneo e paradossale, come un satellite di un pianeta già di per sé diverso dal tuo. Ma, il PAO? Il PAO era l’assurdità astratta ricondotta al mondo reale. Io ho fatto tre guardie in tutto (non mi guardate male), di cui la terza come capoposto. Di PAO ne ho fatti due (non mi ri-guardate male: ero un viscido, no? state muti e pentiti e baciatemi la V!), ma tra la follìa della guardia e quella del PAO non c’era paragone. Il PAO suonava veramente come una privazione immotivata della libera uscita. E tu, vestito come per andare in guerra, vedevi i tuoi compagni (camerati, se politicamente lo preferite) farti ciao ciao con la manina mentre dovevi restare in caserma giusto per, a non fare assolutamente un cazzo. Il PAO non faceva fila a mensa: bello sforzo, a mensa non c’era nessuno. Insomma, essere di PAO era la summa iniuria, l’ingiustizia eletta a sistema, che ti impediva la libera uscita. E quel giorno soffrivi: non per non avere la l.u., ma per l’assurdità delle ragioni.

Col sopraggiungere della primavera le libere uscite ci fecero scoprire che fuori dal perimetro della Montefinale il mondo non si era fermato. Il sole continuava a brillare e tramontare, gli uccellini cinguettavano ancora sui rami, le ragazze non si erano estinte. Noi stavamo diventando nonni e le giornate erano più lunghe a testimoniarlo. Quelle che in origine erano state timide perlustrazioni di gruppo in cauta esplorazione degli sconosciuti anfratti (leggi bar e negozi), ormai erano parate sul territorio familiare. Al cancello ci si divideva perché le destinazioni si erano diversificate, ognuno lungo il sentiero che si era tracciato in mesi di progressivo adattamento. La caserma era diventata una specie di ufficio di giorno e di albergo di notte (sensazione che io e altri avremmo provato ancora più forte alla Scuola Ufficiali Carabinieri, con tutta Roma a disposizione), man mano che la difesa dei sacri confini della Patria contava ogni giorno più su di noi. Come ovvio, anche la libera uscita si dimostrava soggetta a quell’evoluzione percettiva – e quindi al mutamento di significato – che ci accorgevamo coinvolgeva tutta l’esperienza auc. Non eravamo più noi a dover temere il mondo, ma casomai questo a doverci guardare ammirato.

Ma ditemi chi non ricorda come fosse adesso il sentierino che correva lungo la caserma, il primo semaforo che portava alla collinetta sulla sinistra, il saluto della guardia al cancello, sotto il sorriso spesso beffardo dell’ufficiale di picchetto (“pistri!“).

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SU DI ME

SONO EDOARDO, NATO A TRIESTE NEL 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. CONTINUA...

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