Wing Chun (1)

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La totalità delle arti marziali che conosco (quasi tutte solo in forma indiretta) si basa su combinazioni di attacco e forme di difesa. Le combinazioni di attacco sono sequenze di movimenti fisiologicamente studiati e coordinati per essere efficaci ed efficienti. Generalmente, essi sono progettati per offrire meno punti deboli possibile, secondo la logica “passiva” di difesa. Separatamente, le forme di difesa studiate a questo scopo rapppresentano una difesa “attiva”. Quasi sempre, all’interno dell’arte esistono anche movimenti che permettono di passare da una combinazione di attacco a una posizione di difesa, e viceversa.

La scelta tra attacco e difesa dipende dagli stimoli ricevuti dall’avversario, suddivisibili tra visivi e tattili.

Una volta scelta la combinazione di attacco o la forma di difesa, queste vengono attuate in maniera automatica e meccanica: una volta partita la tecnica, essa giunge a compimento (o magari viene interrotta dall’avversario) in base agli automatismi corporei che derivano dalla ripetizione del movimento durante l’allenamento. Gli allenamenti sono perciò volti a rendere il più potente, veloce e pulito possibile il gesto tecnico. Inoltre, l’esperienza aiuta moltissimo a capire quali possono essere le fasi successive ad una determinata combinazione, vale a dire quali contromosse sono più frequentemente adottate dall’avversario e come vi si può controbattere.

Combattere si traduce quindi nello scegliere una tecnica in funzione della posizione e atteggiamento dell’avversario e quindi “schiacciare il bottone” relativo a quella tecnica. Dopodiché, essa funziona da sola.

Il punto debole è che questa procedura è priva di adattamento. È un po’ come mirare a un bersaglio con un missile, dopodiché lo si fa partire. Se il bersaglio si muove e il missile in volo non è in grado di seguirlo, lo mancherà.

Nel wing chun che si vede generalmente in giro, la reazione agli input “imprevisti” provocati dall’avversario utilizza anche – e molto – gli stimoli tattili. Questa è una caratteristica praticamente esclusiva dello stile, che lo rende teoricamente superiore (perché appunto dispone di uno strumento in più) ad altre arti marziali. Dove – per esempio per un pugile – il contatto con una parte non-bersaglio dell’avversario è interpretata solo come un ostacolo, e quindi un’interruzione dell’azione, nel wing chun diventa un input informativo da elaborare e poi sfruttare. Il grosso problema è che nel wing chun “classico”, tali input vengono sfruttati in modo fisiologicamente irrealistico.

Il wing chun impone una struttura corporea molto stabile, fortemente basata sul radicamento a terra. Per coerenza, la spina dorsale deve rimanere eretta. Da questa posizione forte e “neutra”, gli input tattili ricevuti dal contatto con l’avversario dovrebbero avviare le rotazioni del corpo (busto innanzitutto). Il primo problema è che per spostare tramite un momento angolare un corpo umano, l’input deve essere forte. Benché questo sia solo l’inizio della reazione, successivamente supportata dal movimento autonomamente deciso del praticante, è del tutto irrealistico sperare che una massa come quella umana si possa mettere in rotazione intorno al suo asse verticale in maniera sufficientemente veloce da evitare la direzione di forza dell’avversario. Questa difficoltà spiega, almeno in parte, l’insistenza sulla stabilità della struttura: è come dire che la quercia deve essere ben piantata per terra per non cedere, in attesa di avere il tempo di mettersi in moto. C’è una forte contraddizione, in questa logica: più sei “piantato”, meno sei propenso a muoverti (anche a ruotare). In altri termini, più rafforzi gli aspetti strutturali meno incoraggi il sano principio di “toglierti di torno” in tempo utile contro un avversario che ti si sta scagliando addosso.

Inoltre, il contatto con la forza dell’avversario di per se stesso accresce la staticità, perché la forza viene assorbita dall’intera struttura che, come si è detto, per scelta scarica a terra. Più l’input è forte, più devi essere strutturalmente “piantato” e più lo stesso input “ti pianta”. Muoversi, in queste condizioni, diventa difficile, lento e laborioso. Per farlo, cioè per liberarti della forza dell’avversario, come il wing chun predica costantemente, devi attuare necessariamente una strategia di defilamento in cui le tue retroguardie (i punti di contatto) restano a frenare l’impeto dell’avversario. In pratica, da lui non ti stacchi mai.

Questo è del tutto contrario ai principi del wing chun, la cui leggenda fondante parla di un soggetto debole (la classica bella ragazza ignara di ogni tecnica di lotta) in grado di contrastare con successo aggressori più forti, proprio grazie alla mobilità.

Quando iniziai a praticare wing chun mi stupirono immediatamente due cose. La prima sorpresa positiva era la grande aggressività dell’arte, la seconda – negativa – la posizone del corpo, totalmente eretta, francamente “presuntuosa”. Mi chiesi in che cosa potesse essere superiore alla mobilità di un pugile o all’esplosività di un karateka. Scoprii poi che tale presunzione si fondava sull’ipotetica potenzialità di gestire ogni situazione in base al vantaggio dello sfruttamento dei contatti/pressioni. Ma dopo altri pochi mesi vidi che i principi enunciati in tal senso erano molto difficilmente applicabili in realtà.

Il wing chun è una delle arti marziali più diffuse al mondo e senz’altro quella che vanta la più grande organizzazione marziale mondiale (IWTO). Accanto a questa, c’è un proliferare di scuole e sotto-scuole (naturalmente tutte contro tutte) che vanno dalle organizzazioni con migliaia di praticanti a quelle con 10 o meno. Ebbene, i problemi fisiologico-tecnici che avevo incontrato nella mia prima scuola sono i medesimi, invariabilmente.

Tranne che – per quel che ne so – in un singolo caso.

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SU DI ME

Sono Edoardo, nato a Trieste nel 1959. Lì ho ancora una casa e ci torno quando mi va, ma da molti anni vivo a Roma. A Roma sono nati i miei figli, e tanto basterebbe a giustificare sia la mia esistenza che la permanenza nella capitale. Continua...

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